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Storia e Critica

L’idea di memoria e il pericolo di ridurla in un feticcio

Un logo per un memoriale. La Grenfell di Boeri architetti

Progettare un memoriale non è mai banale, perché “progettare” significa “ideare”.
Nel nel caso di un memoriale “ideare” significa “riflettere” sui significati morali di cui l’opera dovrà farsi portatrice.

Posto ciò, risulta inutile soffermarsi sul pericolo che un progettista corre di sconfinare nel superfluo, nell’inutilità del messaggio, soprattutto se il manufatto ideato finisse per esaltare solo se stesso, prevaricando il significato morale che dovrebbe rappresentare.

Leggere concettualmente alcuni noti memoriali consente di evidenziarne l’essenza dei significati che ciascuno di essi dà alla “memoria”, come li trasmette e, soprattutto, come essi sono percepiti e recepiti.

I memoriali più comuni sono quelli dedicati a chi ha immolato la propria vita combattendo per la Patria, di cui sono piene le città dei Paesi coinvolti nelle due guerre mondiali. L’Altare della Patria e il Milite ignoto rendono il Vittoriano di Roma il più famoso e rappresentativo in Italia. Poco importa che sia orribile: conta ciò che rappresenta, dunque anche l’epoca in cui fu edificato, certamente lontana dallo spirito di modernità che già in altri paesi europei iniziava a farsi strada.

Solitamente i memoriali nascono temporalmente dopo l’evento che vogliono ricordare, dunque sono progettati per lo scopo.

Molti sono anche quelli che non erano nati per esserlo, ma loro malgrado lo sono diventati: si tratta di quegli edifici e/o luoghi resi memoriali dagli accadimenti storici di cui sono stati teatro, e ai quali è stato demandato il gravoso compito di traslare la “storia” nella “memoria”, sino a renderle un unicum.

C’è forse qualcosa di più potente che possa rappresentare la fusione tra storia e memoria di quanto lo siano Auschwitz I e Auschwitz Birkenau? No, perché nulla può superare l’intensità emotiva del percorrere quei luoghi e immergersi nelle atmosfere dei suoi spazi e dei suoi manufatti, vivendoli attraverso l’immaginazione direttamente desunta dalla realtà di ciò che sappiamo di quel terribile e atroce contesto che non c’è più.

Senza lo sforzo dell’immaginazione, essere nei campi di Auschwitz diventa pura e semplice gita conoscitiva, con qualche foto in posa da conservare in cornice, usando come sfondo le sue prospettive più famose. Ma ciò vale per qualsiasi altra architettura che voglia essere un memoriale.

I campi di Auschwitz non nacquero per essere memoriale, tutt’altro se è vero che lì si voleva cancellare proprio la “memoria” di razze considerate inferiori. Lo sono diventati perché vi si è storicizzato uno specifico evento, come successo anche per la chiesetta di Sant’Anna di Stazzema. Luogo dell’eccidio del 12 agosto 1942, se fossimo all’oscuro della violenza nazi-fascista che lo causò, arrivandovi lo troveremmo pittoresco, piacevole, tanto esso è caratterizzato dalla tipica vegetazione della Toscana che da collinare si fa montagna, e dalla tipica chiesetta a sala.

Ignari del tragico fatto, probabilmente reputeremmo gli innumerevoli fori nei muri esterni, in quelli interni e nell’altare quali semplice degrado figlio del tempo che scorre.

Ma sapendo che quei fori di proiettile rappresentano i buchi neri del tempo infame del nazi-fascismo, ecco che la tipica chiesetta a sala diventa

crigno storico della memoria.

I luoghi e gli edifici di Auschwitz e di Sant’Anna di Stazzema sono dei memoriali reali che ci danno l’opportunità di viaggiare nel tempo attraverso il loro spazio cogliendone il messaggio morale. Rispetto ai memoriali virtuali appositamente progettati, in quelli reali l’unica forma di vita possibile è il silenzio di chi li percorre, ma il cui contesto storico può essere solo immaginato, sforzandosi di applicare all’immaginazione le ferree e tragiche regole del campo di sterminio. Insomma, senza “contesto” è quasi impossibile “vivere” appieno Auschwitz e Sant’Anna, ma possiamo quantomeno cercare di “sentire” ciò che rappresentano, e lo possiamo fare perché sono rimasti tali e quali a com’erano quando il tempo si è fermato nella morte.

Di qualche settimana fa è la notizia che un manufatto di Londra, nato per tutt’altra funzione, potrebbe diventare un memoriale.

la Proposta di Boeri per la Grendfell

Quattro anni dopo la tragedia che fece 72 morti, Stefano Boeri propone di fare rivivere la Grenfell Tower con piante, rampicanti e numerose specie arboree, sulla falsariga del “bosco verticale”, la cui iconografia è a tutti nota. Dico “falsariga” perché l’architetto ha voluto precisare che, non ripristinando la funzione abitativa, non è possibile riferirsi al “bosco verticale”.

La reputo affermazione centrale che consenta di analizzare la consistenza morale della proposta architettonica. Boeri scinde nettamente la funzione dall’espressività architettonica del suo contenitore, così da poterla usare in ogni dove e, soprattutto, declinata all’occorrenza.

Intervistato da Repubblica, l’architetto ha espresso la volontà di creare ”…. un memoriale che sia anche un simbolo di vita […] Da icona di dolore Grenfell potrebbe diventare, nei cieli di Londra, un monumento alla natura vivente e alla biodiversità”.

L’obiettivo è di sicuro impatto emotivo: trasformare in un “monumento alla vita” un luogo fisico in cui si è consumata una tragedia.

Un obiettivo certamente impossibile da attuare ad Auschwitz o a Sant’Anna di Stazzema, dove la morte sarà per sempre inalienabile.

Un obiettivo che vuole trasformare l’immagine fisica dell’ex grattacielo andato a fuoco, rendendola simbolica commutando da negativo a positivo l’evento tragico che le ha dato notorietà.

Ancora una volta, il tentativo è di fare vivere in simbiosi storia e memoria.

Longarone è un altro luogo in cui la simbiosi è avvenuta, dove storia e memoria vivono in simbiosi grazie al valore aggiunto di essere state contestualizzate nella vita rinata dopo la tragedia della diga del Vajont, tutto ciò grazie all’architettura.

Si tratta di un esempio a cui si deve guardare attentamente per comprendere appieno ciò che significa celebrare la vita attraverso un’architettura capace, a sua volta, di elaborare il lutto.

Arrivato a Longarone subito dopo il disastro, prima di fare qualsiasi segno di matita Giovanni Michelucci rifletté sui significati morali di cui l’opera avrebbe dovuto farsi portatrice; solo dopo ideò e progettò la chiesa di Santa Maria Immacolata.

Chiara e forte l’intensità morale delle sue parole, espresse nel 1964, prima ancora dell’incarico ufficiale del 1966: “… Sono andato a Longarone dopo il disastro del Vajont. Sono andato, sono arrivato, ho visto questa tragedia immensa, questa distruzione, questo paese distrutto. E così, di fronte a questa tragedia e di fronte a questo terreno sconvolto dove c’erano sotto tutti i morti, sono rimasto solo con me stesso. Ma contemporaneamente mi sono trovato di fronte una natura meravigliosa ed allora mi è venuta l’idea di una possibilità di fare una chiesa a Longarone”.

Non fece interviste, non ne parlò con nessuno, non esaltò la sua idea: “… Sono rimasto solo a contemplare il paesaggio che avevo davanti e a fare le mie considerazioni sulla vita e sulla morte. Allora in me iniziò a nascere un’idea che portasse all’esaltazione della vita: il teatro”.

La chiesa/teatro (e anche anfiteatro) di Longarone è certamente unmemoriale atipico perché fa della vita la migliore medicina per elaborare i lutti, rappresentati ancora oggi da quell’altro memoriale “suo malgrado” che è la diga, rimasta perfettamente integra, addirittura visitabile.

L’architettura di Michelucci affronta eccellentemente la difficile tematica di rendere la memoria parte integrante della vita quotidiana. Chi oggi abita a Longarone non ha vissuto la tragedia del 9 ottobre 1963: morirono praticamente tutti e quei pochi superstiti, allora bambini, sono gli unici portatori della memoria di quella notte e di ciò che ne conseguì.

Per gli abitanti di Longarone la chiesa ideata da Michelucci – terminata venti anni dopo la notte della frana – non rappresenta il disastro, bensì la bellezza della vita e quella di quei luoghi fisici aggrediti dalla morte che a Longarone, dopo la ricostruzione, avevano ripreso ad essere vissuti nella quotidianità.

È un memorialeunico nel suo genere, inno alla vita che si presta anche alla contemplazione della morte, ma senza lasciarsi sopraffare: l’ascesa al teatro-anfiteatro è il segno più pregnante di tutta l’architettura, che non ha soluzione di continuità con lo spazio in cui s’inviluppa. Il teatro-anfiteatro non è il terminale del percorso ascensionale, ma è la continuità spaziale dell’architettura con il paesaggio, perché anche da lassù possiamo sentirci “nel” paesaggio.

Ma non solo.

Proprio dal teatro-anfiteatro possiamo visivamente mettere in relazione la memoria della morte (la diga incastrata nella Gola del Diavolo) con la forza della vita (la nuova Longarone), senza alcuna retorica legata all’immagine propria del manufatto architettonico che non ha alcuna pretesa di narcisismo, ma solo il garbo di mettersi al servizio della memoria.

Al contrario, la proposta per la Grenfell è labile perché rappresenterebbe non la memoria di chi vi morì, ma l’icona di se stessa, il de ja vu architettonico/formale.

Mettersi al servizio della memoria significa essere “testo” architettonico leggibile solo se totalmente fuso con ciò di cui vuole essere memoria, ma mai prevaricandola.

Va da sé che sia davvero logica l’affermazione di Boeri che definisce l’operazione di Londra non riferibile al “bosco verticale”, ciò in quanto non si tratta di crearvi abitazioni. Si trascura volutamente che alla base dell’idea c’è comunque il concetto di “torre alberata”, a prescindere dal fatto che contenga o meno abitazioni.

Milano – Bosco Verticale – Stefano Boeri

Il “bosco verticale” è un logo dal quale Boeri – ammesso che lo voglia – non potrà svincolarsi facilmente, ché rappresenta il sistema dei grandi investimenti di capitale atti a creare luoghi di vita certamente finalizzati al profitto derivante dal loro valore intrinseco e della rendita di posizione. Per carità, tutto lecito ma per niente attinente al significato di “memoriale” che ricordi una tragedia figlia della speculazione edilizia al ribasso.

Oramai divenuto vero e proprio status symbol, a prescindere dalle decantate potenzialità di “edificio green” il “bosco verticale” rappresenta solo se stesso, come confermano le varie commesse ricevute nel mondo. Proprio le molteplici ripetizioni della tipologia (da Milano a Tirana, etc.) renderebbero la Grenfell non il “manifesto della celebrazione della memoria e della vita”, bensì un “manifesto pubblicitario” autoreferenziale della tipologia di tendenza ripetibile in serie, ma stavolta ammantata da aleatori contenuti etici profondi.

Mi è difficile immaginare la nuova fisicità della Grenfell proposta da Boeri osservandola senza collegarla al “bosco verticale” e a tutta la sua simbologia, che è assolutamente lontana dalla tragicità del rogo e delle sue cause certamente legate all’identità economico-popolare, caratterizzata da quei materiali scadenti che lo hanno determinato.

Il Bosco Verticale di Milano e la proposta della Grenfell di Londra

Inverosimile, dunque, che chiunque dovesse osservare la nuova Grenfell nella sua iconografia di edificio totalmente in simbiosi con “piante, rampicanti e numerose specie arboree” vi possa cogliervi il messaggio di “memoriale quale simbolo di vita”.

Nel 2010 andai ad ascoltare Boeri alla Triennale di Milano. Il tema era quello dello scandalo politico/affaristico/edilizio della Maddalena, luogo in cui si sarebbe dovuto svolgere il G8 di berlusconiana memoria. Boeri ne era stato indirettamente coinvolto in veste di progettista della Casa del Mare.

Ne scrissi un articolo Il ‘particulare’ di La Maddalena con cui cercai di analizzare le eventuali responsabilità morali di Boeri. Ma fu lo stesso architetto a darmene conferma durante la conferenza, ammettendo che l’incarico per la Casa del Mare lo volle e lo cercò perché dettato da “manie di grandezza”. Qualche anno dopo Boeri definì quella vicenda come un buco nero della sua storia professionale, considerandolo un errore dovuto all’ambizione personale.

Con la proposta per la Grenfell, ancora una volta, Boeri rischia di anteporre alla morale le sue ambizioni personali e le sue manie di grandezza, che lo spingono a trasformare un simbolo di morte in unmemoriale simbolo di vita attraverso la reiterazione del suo personalissimo logo, che tutto è tranne che simbolo di riflessione profonda sulle responsabilità che sono state la causa della tragedia (la già citata speculazione).

Credo che sia d’obbligo una riflessione sulla sostanziale differenza tra il concetto di “simbolo di vita” oltre la morte e quello di “architettura quale continuità con la vita”, oltre la morte.

Simbolo di vita oltre la morte, dice Boeri.

Architettura quale continuità della vita, oltre la morte, ha detto e fatto Michelucci.

Ma un memoriale che – come vorrebbe Boeri – sia “simbolo” di vita è una contraddizione in termini: un memoriale è tale proprio perché ci ricorda l’evento specifico della morte, servendo da esso da “memoria”, da monito.

Nelle intenzioni del progettista la Grenfell dovrebbe essere simbolo di vita da percepire nello skyline di Londra: osservando quel grattacielo pieno di vegetazione dovremmo legarlo alla memoria delle vittime e al rifiorire della vita. Sarebbe tutto molto suggestivo se, come detto, non si trattasse di riproporre una specifica tipologia progettuale a cui – tra l’altro – mancherebbe proprio la vita al suo interno.

Nello skyline di New York vive la Freedom Tower, nata da Ground Zero ma che non ne è, e né vuole essere, il memoriale dell’11 settembre2001: brulica di vita, vuole essere “vita”, status rappresentato attraverso la sua presenza e prevalenza nello skyline.

Solo arrivando a Ground Zero si comprende appieno quanto fisicamente e concettualmente la Freedom Tower si faccia da parte, con la netta sensazione che nei rapporti spaziali sia annullata dal grande invaso scaturito dal crollo delle Twins Tower, ancora più accentuato dal duplice vulnus che, marcato dalla profondità, ribalta il rapporto verticale tra il fuori terra (Freedom Tower) e l’ipogeo (sedime Twin Towers). È diventando parte integrante del contesto che la Freedom Tower partecipa al significato di memoriale.

Un’architettura urbana che sia continuità della vita oltre la morte – così come l’hanno concepita Michelucci e Libeskind – non deve trasmette solo le emozioni legate al ricordo dell’evento tragico, ma deve avere la capacità di trasmetterci la forza della normalità della vita, rendendola assolutamente percettibile proprio a partire dall’ideazione del progetto.

Un’architettura che sia unica, senza ricordarci qualsivoglia simbolo consolidato, perché sennò diventerebbe feticcio, oggetto inanimato e banalizzato al quale si pretende di dare aura spirituale.

Mi auguro davvero che Boeri non accetti alcun incarico per la Grenfell, nonostante il progetto sembri essere già pronto, visto che il web è invaso dai suoi render.

Similarmente a quella avuta da Michelucci a Longarone, l’occasione (da non sprecare) di legare il proprio nome alla resurrezione da una tragedia Boeri la sta già vivendo a Genova. Credo possa bastare per dimostrare di saper fondere il proprio valore morale con le idee.

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