Saudade è un termine della lingua portoghese che sta a indicare nostalgia, tristezza, rimpianto.
Un’espressione che non sarebbe piaciuta a Bruno Zevi, combattente infaticabile continuamente occupato a scavare nel futuro e che, per questo, non avrebbe mai dedicato un solo minuto a un impulso dell’anima così poco fecondo. Ma Zevi era Zevi, uno storico che cercava il dopo e un critico che comprendeva il prima. Un grandissimo del novecento e, paradossalmente, proprio lui e la sua dimensione ci costringono oggi al rimpianto per l’assenza della sua statura critica e ci condannano alla tristezza e alla nostalgia per la sua morte avvenuta ormai quasi otto anni fa.
Per comunicarvi meglio ciò che voglio dire, la cosa migliore è riproporvi un pezzo scritto da Zevi per l’Espresso in occasione della mostra “Francesco Borromini e l’universo barocco”, tenuta a Roma nel Palazzo delle Esposizioni nel 2000. Lo scritto è stato pubblicato il 6 gennaio di quell’anno. Zevi morì improvvisamente il 9 gennaio nella sua casa romana in via Nomentana. Avrebbe compiuto 82 anni 13 giorni dopo.
Una volta letto l’articolo, ditemi se ho un po’ di ragione.
Vergogna, avete ucciso Borromini
di Bruno Zevi
La mostra “Francesco Borromini e l’universo barocco”, messa in scena nel romano Palazzo delle Esposizioni fino al 28 febbraio, è quanto di più grottesco, paranoico e idiota si possa immaginare. Vera e propria oscenità nel contenuto, nel taglio interpretativo, nell’allestimento nelle sue articolazioni. È difficile accumulare tanti difetti, ma l’alleanza tra i professori Cristoph Frommel e Richard Bosel, l’architetto Francesco Cellini e l’ex-storico Paolo Portoghesi ci è pienamente riuscita.
Cominciamo dai tedeschi. Senza il Goethe Institut e l’esemplare biblioteca Hertziana, in Italia non si potrebbe studiare la storia dell’arte. Ciò riconosciuto, va detto che l’egemonia, la preponderanza culturale germanica ha i suoi prezzi: anzitutto, una generica diffidenza verso la modernità; poi, l’inclinazione a guardare il passato con occhi tradizionali e spesso accademici. È quanto emerge nella mostra. I disegni dell’Albertina di Vienna ne costituiscono la spina dorsale, ma la loro scelta giustifica le più ampie perplessità. I grafici rivoluzionari sono sfibrati da una serie di immagini moderate e stupide. Sono stati costruiti appositi plastici basati sui peggiori progetti. A qual fine? Per dimostrare che Borromini è se stesso, ma anche il contrario di sé; non deve spaventare perché è capace di progettare come un geometra deficiente. In breve, si conferma la perversa tendenza a “berninizzare” Borromini riducendolo a un classico, se non a un classicista.
Quanto al lavoro di sistemazione firmato da Cellini, siamo al culmine dell’insensatezza. Basti osservare che il brutto modello della guglia di Sant’Ivo alla Sapienza, concepita a spirale «per avvitare il cielo», è posto al centro dell’atrio, soffocato dalla volta simmetrica ed insipida di Pio Piacentini. Scadente, pessimo design, nessun percorso, nessun tentativo di animare e dinamizzare l’infelice ambiente. Cellini non ha capito che per seguire il cammino eretico del genio seicentesco occorreva puntare sull’avanguardia estrema, spericolata, quella che aborre qualsiasi sicurezza. Al piano superiore, un’altra idea balzana. Portoghesi ha invitato i massimi architetti contemporanei a elaborare un disegno “borrominiano”. Ci sono tutti, da Frank Gehry a Robert Venturi e Hans Hollein. Con questo bel risultato: nessuno comprende un’acca non dico della poetica, ma neppure del linguaggio efferato del maestro. Assai peggio che nel Settecento: qui non si tratta di una chiave decorativa, ma del nulla. Evidentemente, tramite Portoghesi, hanno pensato allo squallido Post-Modern; se ne sono vergognati e hanno rinunciato a rispondere.
In conclusione, sono da deplorare:
1) Renato Nicolini, direttore del Palazzo delle Esposizioni, già assessore leggero e inventivo dell’estate romana, e ora schiacciato da una carica istituzionale per la quale non è tagliato;
2) i vari ministeri, enti e principalmente il comune di Roma, il cui sindaco, Francesco Rutelli, affetto da una lunga e cronica allergia all’urbanistica, non soddisfatto del clamoroso e da anni “annunciato” fallimento delle opere per il Giubileo, sorride come sempre, persino al cospetto dei meschini alberetti simmetrici posati sui gradini della scalinata d’ingresso;
3) gli studiosi tedeschi, della cui arroganza abbiamo parlato;
4) gli studiosi italiani che bofonchiano «che porcheria!» senza protestare minimamente. Includo tutti i cattedrattici di storia dell’architettura, restauro e storia dell’arte. E pensare che nel 1967, per l’anniversario della morte, su Borromini scrissero personaggi quali Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi, Sergio Bettini, Manfredo Tafuri, i cui splendidi saggi sono stati pubblicati adesso su “L’architettura – cronache e storia”;
5) infine, la cultura, il costume, il clima politico italico. È chiaro che Borromini costituisce un’intollerabile dissonanza. Non c’entra proprio in questa atmosfera distratta di restaurazione. In verità, non c’entra nemmeno Bernini che è un retore, uno scenografo, un “persuasore occulto”, ma è bravo in grado acrobatico. Qui trionfano solo i mediocri, gli svogliati, gli “spiritosi” tesi a mortificare un genio amalgamandolo. Sotto questo profilo, i due anniversari della fine secolo, quelli di Carlo Rosselli e di Francesco Borromini, si equivalgono.
Attestano l’apatia, l’indifferenza, la mancanza di impulsi critici.
(06.01.2000)