Nella presS/Tletter n.06-2009 è apparsa una lettera dal titolo Cherubino Gambardella: Sulla debolezza dell’architettura italiana in cui l’autore, Cherubino Gambardella appunto, credo in risposta ad un articolo di Valerio Paolo Mosco sul consueto tema della modestia delle ultime architettura italiane, riesce in poche righe a produrre un numero tale di cialtronerie che è raro trovare condensate in un testo così breve.
Eccovene un distillato:
– “L’architetto romano (Valerio Mosco [n.d.a.]) si affida, quindi, con piena fiducia alla meccanica definizione di Bruno Zevi, vate dello spazio interno come garante di qualità architettonica.”
Per mettere insieme ed in accordo nella stessa frase parole come meccanica e Bruno Zevi occorre essere o molto prudenti, o molto incompetenti. E mi pare che la prudenza non sia caratteristica peculiare del nostro Cherubino. Neppure il più sprovveduto dei postmoderni detrattori di Zevi riuscirebbe a falsificare le poche cose che sa di lui al punto da vederlo sproloquiare sullo sfondo delle coordinate cartesiane. Anche i bambini conoscono il suo invito rivolto agli architetti a buttare tecnigrafi e squadrette per liberare definitivamente i pensieri da un’idea meccanica di architettura. Il nostro Gambardella, per quanto poche, sommarie e generiche nozioni possa avere, non può ignorare il fatto per cui la frase che ha scritto è solo un’irritante cialtroneria.
– “Questa architettura prima si affidava al Terragni degli impianti bloccati e simmetrici, agli Albini, ai Libera, per stendere testi in cui etc…”
Terragni degli impianti bloccati e simmetrici è una battuta che fa di Gambardella un raffinato autore comico di commedie degli equivoci. Se no di che Terragni parla? Se c’è un autore che non riesce a essere simmetrico nemmeno quando lo vuole questo è proprio Terragni! E poi bloccato da cosa? Nella casa del fascio di Como, come in tutte le altre sue architetture peraltro stranote, lo spazio scappa da tutte le parti, spinge e si fa largo infischiandosene della struttura, della sua purezza e del suo rigore statico. Terragni è talmente critico con lo schematismo compositivo che le sue architetture sono perennemente aperte, plurime e dinamiche nell’intersezione e nell’interazione di più tracce compositive, impossibili da chiudere tutte insieme. Eisenman guardava questo, non le città e le sciocchezze postmoderne di Rossi e Portoghesi.
Ma andiamo!
Già, ma si parla di spazio, quello che Gambardella disconosce perché non riesce a cogliere, così attento e sensibile a “…quegli architetti che lavoravano sulle persiane, sulle logge e sugli sporti infischiandosene della pianta e dello spazio interno”. Bravo, lavori sui balconcini e lasci perdere lo spazio. Soprattutto non ne scriva perché scrivere male di ciò che s’ignora è solo un’inutile cialtroneria.
– “Ma quanti italiani lavoravano ossessivamente sullo spazio? Molti se lo spazio è un complesso inviluppo di forme, pochissimi se è una condanna a un virtuosismo tachicardico come quello proposto su da un Moretti livoroso per il tardare di una legittimazione culturale inseguita come una chimera.”
Definire lo spazio un complesso inviluppo di forme è come definire tutta la donna un accessorio della vagina. Pare che, per lui, ciò che dà piacere e seduce costringa a tollerare tutto il contorno. Ma non è così. Una concezione tanto patologica della forma, tale da attrarre a sé tutto lo spazio ed i suoi significati, è un problema legato alla sua personale psicologia, che non può essere assunta a presupposto di apparenti analitiche deduzioni. Questo è intellettualmente scorretto perché contro la logica e la ragione.
Ma la cialtroneria, allora, dov’è?
Nel definire il povero Moretti un virtuoso tachicardico e livoroso. Da cosa lo deduce, dall’inviluppo delle forme?
– “E così, qualche bella intuizione di Sacripanti, qualche raffinata copertura di Mangiarotti, poche farneticazioni di Pellegrin, alcuni riusciti giochi di scomposizione di Ricci e Savioli e qualche tentativo professionale di cui si era fatto interprete lo Zevi transfuga dall’odiata accademia ci restituiscono la piccola portata di un fenomeno che Valerio Paolo Mosco idealizza ben oltre la sua reale consistenza e i suoi risultati.”
Se ci aggiungiamo Michelucci, Ridolfi, Piccinato, Fiorentino, Samonà, Quaroni, De Carlo, forse li abbiamo citati quasi tutti ma, per il caro Gambardella, mi sa che la portata continuerà a restare piccola. Lui è una forchetta robusta, ci vuole ben altro.
Perché? Perché è ostinatamente convinto che lo spazio non è materia prima dell’architettura, ma il luogo dove posare delle cose, purché abbiano l’idea di città, con persiane, logge e sporti.
Così come lo credono, chi più chi meno, “Rossi, Purini,Valle, Gabetti e Isola, Polesello,Venezia, Prati e altri ancora guidati prima dal frammentismo nichilista di Tafuri e poi dalla speranza postmoderna di Portoghesi (i quali [n.d.a.]) esportano nel mondo l’Italia eclettica e relazionale del progetto disegnato e della costruzione citazionista.”
L’esito dell’esperienza eclettica e citazionista è ben visibile nell’arretratezza culturale in cui è sprofondato il nostro paese, incapace d’uscire da una dimensione casereccia non solo dell’architettura ma di tutta la realtà civile e sociale, politica compresa. Rivendicare il primato d’aver indicato al mondo la strada del localismo, del folclore e dello strapaese è una pessima referenza che dovrebbe prostrarsi vergognosa all’imbarazzo di non aver saputo comprenderne la pochezza e la vanità.
Proporre alla lettura un minestrone scialbo come quello cucinato da Gambardella, in cui tutti gli ingredienti alla fine hanno lo stesso sapore, non aiuta la comprensione di ciò che è stato e non risparmia nessuno da responsabilità che invece sono chiare e che furono a suo tempo indicate con forza proprio da Bruno Zevi.
Proporne la lettura agli studenti è fatto ancor più pesante perché il peggior nemico della conoscenza – e dell’evoluzione che ne segue, come mostra l’immagine pubblicata – è la confusione.
Questa è la cialtroneria più grave.