Martedì 24 maggio, a Roma, si è tenuta l’Assemblea Generale In/Arch.
Ho ricevuto la sintesi della relazione programmatica del presidente nazionale Adolfo Guzzini, che allego in calce a questo articolo.
Queste che seguono sono le mie considerazioni e riflessioni.
Devo dire di aver apprezzato e condiviso quasi tutto il documento, in specie nelle premesse e nell’analisi della situazione devastante e devastata di una nazione caoticamente dispotica, ostaggio di una burocrazia in totale paranoia legislativa: “…in Italia la Pubblica Amministrazione, a tutti i livelli, non chiede qualità ai progetti di trasformazione del territorio. Non la chiede perché non gli interessa. Chiede altro e si interessa d’altro. Chiede carte, burocrazia, asseverazioni, giuramenti, metri cubi, rispetto di parametri inutili, verifiche di vincoli astratti e contradditori. Si compiace nel costruire corse ad ostacoli sempre più difficili e fantasiose, nel moltiplicare i centri decisionali, i diritti di veto, l’attribuzione di competenze a soggetti incompetenti. Amplifica all’inverosimile norme e contro-norme, livelli di pianificazione, inutili regolamenti.“
Nel paese che ha inventato il fascismo, che non è chiudere la bocca ma è soprattutto obbligare a dire – come diceva R. Barthes – le libertà individuali e i diritti che le presiedono sono visti come minacce, come potenziali furberie di cui le persone potrebbero profittare per ottenere qualche indeterminato beneficio privato. Libertà che in tutto il mondo civile si traducono in prosperità collettiva, da noi, in assenza di una dimensione autenticamente liberale e laica della politica, occorre scontare affidandone l’esito ad un populismo bigotto e volgare da un lato o consociativo e giustizialista dall’altro. “…sistemi che tendono alla creazione di nuovi privilegi attraverso coalizioni o interessi organizzati, (con) un numero sempre crescente di persone (che) si allontana dal sistema prevalente.”
(F.A. von Hayek – Legge, legislazione e libertà – il Saggiatore 1986)
“La nostra cultura respinge gli individui, le loro potenzialità enormi. Il nostro è un paese associativo e consociativo, non si basa sui diritti e sui doveri degli individui.[…] So di non essere popolare, ma lo ripeto: un raccomandato che guadagna duecentomila euro a spese del contribuente è eticamente a un livello ancora più basso di un delinquente comune, e gli effetti economici che produce sono di gran lunga più devastanti”.
Intervista a Claudio Piersanti di Enzo Mansueto, tratta da “Corriere della Mezzogiorno”, 11 giugno 2006
Il riferimento al primato, in un qualsiasi giudizio, della procedura sulla regola – che è argomento di massima riflessione da parte mia perché questa, secondo me, è la prima rivelazione della tirannia di fatto – mi ha particolarmente colpito per chiarezza e determinazione: “Sulla barriera delle procedure si infrange qualsiasi altro ragionamento: sull’architettura, sulla qualità, sull’urbanistica, sulla felicità dei popoli e quant’altro. L’eccesso di burocrazia e di procedure sadicamente complesse e poco chiare, distoglie l’attenzione da tutto il resto: non si progetta più per produrre spazi di vita che consentano di dare risposte alle esigenze dei cittadini per farli vivere meglio: si progetta per rispondere solo alle esigenze delle procedure.”
Trovo poi il riferimento al tempo puntuale e preciso. Il tempo, nella logica classica, è variabile indipendente, ma solo li è rimasta tale. Ricordo che l’articolo Elettrodinamica dei corpi in movimento, in cui A. Einstein battezzava la relatività, è del 1905, ma nei tribunali e nei parlamenti, presumibilmente orgogliosi di una formazione culturale disdegnosa delle faccende di scienza, ancora non è arrivato:
“In tutto ciò irrompe prepotente la componente tempo, prima vittima delle leggi e delle procedure inutili.
Il tempo non è una variabile indipendente, come pensano i tanti burocrati delle pubbliche amministrazioni. Pesa come un macigno sulla qualità dell’architettura, sulla pianificazione, sullo sviluppo economico, sulla società. Posso avere in mano il miglior progetto di trasformazione urbana del mondo, il più attento alla sostenibilità, al contesto fisico e sociale, alla fattibilità economica, all’innovazione tecnologica ecc. ecc. Ma se lo realizzo dopo 20 anni dalla sua concezione diventerà comunque un progetto sbagliato!
Operatori immobiliari, investitori, costruttori, progettisti quando e se riescono a raggiungere la fine del labirinto burocratico per realizzare un intervento non hanno più né la forza né la voglia né le risorse per occuparsi della qualità dell’Architettura. Ma come è possibile che nessuno si renda conto di come questa macchina infernale che è stata costruita tra vincoli e procedure è la strada sbagliata che ha prodotto degrado e devastazione del territorio?”
Non posso che applaudire. Analisi precisa, spietata, sicuramente provata da fatti e situazioni di cui tutti i lettori avranno sicuramente fatto esperienza o perlomeno sentito il racconto.
Una domanda però mi preme. Tutti questi personaggi che hanno contribuito e contribuiscono al massacro normativo, sono architetti o cosa? E se lo sono, a quale specie appartengono visto che vengono formati – o deformati – nelle stesse scuole?
Formati, o deformati, in quelle scuole dove per anni ha pontificato proprio quel Vittorio Gregotti che, con mia massima sorpresa, non avrei mai pensato di veder citato con ammirazione in una relazione dell’In/Arch.
Ma così è.
Per il presidente Guzzini, l’ossessione patologica di Vittorio Gregotti per le libertà formali pare essere l’antidoto ai mali d’Italia che, paradossalmente, non sono più l’eccesso normativo partorito proprio dalla stupidità teorica di regole compositive, di tipologie e contestualizzazioni astratte, frutto di assurde pretese ontologiche che proprio il nostro maestro per quasi un secolo ci ha calato sull’apparato genitale dalle più gloriose testate italiane, ma: “Dobbiamo essere sinceri fino in fondo: molti dei nostri architetti, estasiati dalle mirabolanti performance delle archistar, hanno continuato a credere che la soluzione fosse tutta racchiusa in riflessioni di tipo morfologico-compositivo, in un gioco formale che li liberasse da altre responsabilità.
In fondo in questi anni l’architettura così intesa, quella del brand, della firma, della genialità del singolo è anche diventata di moda nelle riviste, nei programmi televisivi, sui quotidiani. Ma l’estetica del mercato e del consenso è altra cosa dall’impegno per una trasformazione sostenibile delle nostre città e dei nostri territori. Vittorio Gregotti, nel suo recente libro intitolato “contro la fine dell’architettura”, sviluppa una articolata riflessione sull’architettura contemporanea denunciando la dilagante deriva della rincorsa all’ultima moda dell’architettura intesa come oggetto singolo ingrandito. “Ci troviamo di fronte – scrive Gregotti – ad una nuova espansione abusiva del termine creatività ed alla necessità di un’originalità estetica astratta come valore assoluto, indipendente da ogni altra condizione di contesto…”
Mi domando: a quali altre responsabilità facevano riferimento, ad esempio, F.L. Wright progettando Fallingwater, Le Corbusier progettando Ronchamp, Mendelsohn la torre Einstein, Terragni la casa del fascio, Michelucci la chiesa sull’autostrada, e potrei continuare per ore? Di quali grosse responsabilità si sono fatti carico questi personaggi se non quella di costruire una grande architettura?
Bene, dichiaro schiettamente e con la massima chiarezza che, come architetto, voglio essere libero da tutte quelle altre responsabilità che non hanno niente a che vedere con l’architettura e che sono il veleno, non l’antidoto, del degrado architettonico nazionale. Con l’alibi sociologico e antropologico si giustificano e si continuano a difendere scelte urbanistiche e architettoniche sbagliate perché assurde e pretestuose, come per esempio lo Zen di Palermo il cui autore, Gregotti appunto, difende accusando dell’insuccesso l’incuria degli abitanti e delle amministrazioni. Ma perdio, l’incuria c’era prima del progetto. Era parte proprio di quel contesto tanto tirato in ballo dall’autore. C’è da chiedersi di quale contesto parli Gregotti. Tradurre l’incuria in architettura, direbbe Zevi, avrebbe onorato sicuramente meglio il contesto e gli abitanti del quartiere. Come esattamente ha fatto l’archistar F. O. Gehry a Bilbao, occupandosi esclusivamente di architettura e non di sociologia. Ma tutto questo, se non lo si fa liberando poeticamente il linguaggio, con cos’altro lo si può fare?
Spiace che proprio l’In/Arch prenda le distanze dal suo fondatore, contestandone le fondamenta teoriche.
Aggiunge Guzzini: “Voglio qui citare la sequenza logica che in tante occasioni il nostro “saggio”, l’ingegner Odorisio ha espresso. Un sequenza capace di offrire un quadro straordinariamente sintetico della nostra realtà: l’architettura è stata uccisa dall’urbanistica. L’urbanistica è stata uccisa da una presunta tutela del paesaggio. Architettura, urbanistica e paesaggio sono stati uccisi da inutili procedure ed autocompiacenti regole burocratiche. La domanda che sorge immediata è questa: chi è l’assassino?“
Bene, secondo voi che è? Chi vuole imprigionare lo spazio dentro teoremi che vorrebbero tenere insieme le caricature dialettali con le squadrette ideologiche o chi lo vorrebbe affrancare ad uso di un rinnovamento civile, sociale e culturale continuamente in atto? Se proprio uno dei principali assassini, peraltro non pentito, ci deve salvare dai prossimi delitti siamo messi veramente male.
La libertà, soprattutto quella spazio-formale dell’architettura, si paga con grandi rischi di grandi delusioni, ma il suo concime è così fecondo da produrre sicuramente i frutti più dolci. Con le paure e le frequentazioni della peggiore retroguardia conservatrice non si andrà da nessuna parte degna d’un paese civile, perché per costoro l’unico futuro possibile sta nella mistificazione del loro passato.
Se veramente all’In/Arch sta a cuore la qualità dell’architettura rivolga il suo pensiero a chi le paure le ha vinte spezzando le catene della pedanteria dottrinale e della censura che ne deriva. La qualità, in tutti i campi della conoscenza, dell’economia, della società e della politica, si ottiene per libera concorrenza e non per censura. Non si capisce perché l’architettura ne sia esclusa e perché ad escluderla siano i successori di chi, al contrario, ne ha sempre sostenuto l’estrema libertà spaziale.
Brutta strada quella indicata dal presidente In/Arch. Con Gregotti sullo sfondo fa anche un po’ tristezza.
Allegato: Relazione programmatica del presidente nazionale Adolfo Guzzini (pdf)