Parlare di forme, in architettura, annuncia sempre qualche sventura dialettica. La forma, infatti, è argomento difficile e scivoloso, che si preferisce spesso lasciare alla dipendenza da qualcosa d’altro che gli architetti giudicano molto più degno della loro considerazione. Forma, poi, è un termine decisamente ambiguo. Essere formali, per esempio a tavola, significa sottostare ad un protocollo e a regole precise; esser formali, in architettura, significa invece non aver regole e lasciare spazio esclusivamente alla vanagloria dei propri sconsiderati pensieri.
La forma, quindi, è argomento che, se si vuole proporre come occasione di discussione, ha necessità di un atteggiamento prudente e particolarmente attento.
Conviene allora partire dalla sua natura primitiva, filologica, e dalla sua relazione con un altro termine che il senso comune usa in competizione col nostro: sostanza. Forma e sostanza, se apparentemente vivono nell’immaginario un perenne conflitto ideale, in realtà, per la semiotica, sono argomenti inseparabili di una stessa costruzione espressiva.
E qui occorre essere molto precisi. Qualsiasi segno, che è sempre qualcosa che sta per qualcos’altro, è una relazione (o funzione) fra espressione/contenuto, e sia espressione che contenuto hanno una forma (esiste una forma dell’espressione e una forma del contenuto) e una sostanza (sostanza dell’espressione e sostanza del contenuto).
In ambedue i casi la sostanza è ricavata (mediante l’intervento di una forma) da una materia (amorfa, ovvero pre-semiotica).
Costretti a convivere nella stessa casa, forma e sostanza tendono quindi a litigare continuamente rivendicando la preminenza dell’uno sull’altra. Ma l’una non può vivere in assenza dell’altra. All’interno della comunicazione, infatti, se la forma ne costituisce il mezzo espressivo, la sostanza ne è il fine. La loro concorrenza è necessaria, tanto che la sparizione dell’una o dell’altra, paradossalmente, converte la seconda nella prima o viceversa.
Un esempio può chiarire quanto ho appena detto. Se osserviamo il periodo pittorico che va sotto il nome di informale – che letteralmente vuol dire senza forma – possiamo fare la seguente riflessione. L’assenza di una forma nota non produce la scomparsa della sostanza: tela e colori su di essa, anche se non raffigurano nulla, ci sono eccome! Inoltre, l’assenza di una forma nota, non produce inevitabilmente la sparizione della stessa, perché è la sostanza medesima che a questo punto si dà forma. Forma e sostanza, in questo caso, diventano la stessa cosa.
Se manca qualcosa nell’analisi di un’opera informale, questa è la rappresentazione di qualcosa che ci è noto. Manca la messa in scena di ciò che già conosciamo. Manca la finzione di una realtà apparente. La morale di questo esempio è che, quindi, noi contrapponiamo forma e sostanza solo in presenza di una figurazione semantica, di una falsificazione della realtà apparente; mentre, nella realtà ontologica, autentica, originale, questa distinzione svanisce del tutto.
Solo la mistificazione, quindi, ci fa distinguere tra forma e sostanza. Mistificazione che è diventata dominio di quasi tutta l’espressione artistica degli ultimi decenni, a partire dalla metà del secolo scorso.
Questa considerazione, peraltro, ci fa comprendere quale distanza si sia creata tra le due anime principali che hanno destinato le correnti artistiche contemporanee. La prima è connessa ad una concezione moderna di verità, legata alla forma del contenuto, che ricerca l’autenticità nella scrittura e nel privilegio di questa d’esser traccia indelebile della nostra reale presenza. Ad essa fanno riferimento movimenti che, a partire dall’informale e dall’arte povera, sfociano nel decostruttivismo attuale, il cui merito più importante è d’aver rimesso la scrittura al centro della riflessione contemporanea.
La seconda anima è quella concettuale, che da Duchamp in poi ha condotto l’espressione artistica verso la rappresentazione teatrale, annichilendo qualsiasi impronta personale in omaggio ad un pensiero, quello postmoderno, che tra le sue ragioni principali accoglie la rinuncia meditata d’una verità oggettiva e quindi oggettivabile e ricercabile mediante la scrittura personale.
L’accento performativo di quasi tutte le esperienze artistiche contemporanee pretende d’aver neutralizzato il segno personale, nel senso della forma del contenuto, per giungere direttamente al significato, alla sostanza del contenuto. Pretende, in pratica, d’aver espresso un significato in totale indipendenza di forma. Ma non è così. Come sostiene Jean Baudrillard, è praticamente impossibile sbarazzarsi del cadavere del mondo. Anche la più neutra delle messe in scena tradisce la mano del suo autore e questo contagio formale, questa traccia personale che fatalmente siamo costretti a lasciare, compromette nelle fondamenta la teoria unicamente concettuale dell’arte.
Le cose d’arte stanno quindi mutando e, se da un lato occorre assistere ad una triste benché consistente regressione nel classicismo figurativo, dall’altro non mancano i segni di un nuovo ed autentico rinnovamento formale.
Un ultimo aspetto della forma riguarda la sua dimensione liturgica. Relativamente alla rappresentazione, la liturgia è ciò che discrimina moralmente un evento. A ben vedere, la pratica pagana di cibarsi dei propri simili per assimilarne le virtù, nella religione cattolica ha raggiunto livelli di estrema raffinatezza espressiva, segno di sublime moralità, grazie alla liturgia presente nella rappresentazione della Santa Messa. In questo caso la forma (del contenuto), quindi la liturgia, riscatta ed esalta eticamente una sostanza disdicevole. La forma ha quindi questa grande qualità, e contemporaneamente responsabilità, di affrancare l’umanità da una condanna che, sulla base dei soli contenuti riferibili ai comportamenti, parrebbe inevitabile. Questa cosa bene la conoscono i potenti di tutti i tempi che sempre si sono circondati di artisti e di opere d’arte.
Ora, data questa robusta premessa, possiamo affrontare il problema della confusione delle forme nelle scuole di architettura.
Dirò subito che tale confusione, per me, non ha un’accezione totalmente negativa. Anzi, la forma, proprio per la sua facoltà di svelare la mistificazione semplicemente rivelandosi, consegna proprio alla sua evidenza la chiave critica per mettere alla prova le teorie che le scuole sono tenute a formulare per dovere pedagogico.
Credo che tutti noi, in passato, negli anni degli studi universitari, abbiamo fatto l’esperienza di sottoporre un progetto al professore di turno. Tutti noi abbiamo cercato di giustificare le cose che proponevamo ricorrendo al senso e al significato delle nostre formulazioni. Mai, per incoscienza o per semplice vigliaccheria, abbiamo difeso il nostro lavoro semplicemente appoggiandone i requisiti solo formali, sebbene questi avessero ispirato principalmente il nostro progetto e solo questi avessero la possibilità di rappresentarci nel modo più autentico e sincero.
So di sollevare parecchie reazioni critiche per quanto ho appena affermato, ma sarebbe ingiusto tacere. In gioventù si è affascinati dalle forme prima che dai contenuti e solo ascoltando con attenzione l’eloquenza formale degli studenti si ha la possibilità di coglierne per intero doti, capacità e determinazione.
Orbene, sapendo quanta rilevanza ha la forma nel qualificare eticamente gli eventi, gli insegnanti di tutte le scuole dovrebbero riflettere sull’importanza della sua testimonianza.
Invece, nella maggioranza dei corsi di progettazione delle università italiane, si continuano a produrre teorie nelle quali l’avversione, a volte anche violenta, per la libera forma e le novità formali prodotte dalle esperienze architettoniche più coraggiose e attuali è sostenuta da un confuso, questo sì, corteo ideologico che va dal Darwinismo alla linguistica generale di De Saussure, fino allo strutturalismo, passando per tutti gli storicismi possibili e immaginabili. Senza parlare di tipi e tipologie che ricordano più le esperienze lombrosiane della fine dell’ottocento che un serio trattato d’architettura. Le ragione di un tale accanimento stanno nel sistema che governa la professione in Italia. Richiedendo, questa, un’iscrizione obbligatoria per poter essere praticata, pretende, da parte di chi questa iscrizione ottiene, d’esser formato con un minimo di oggettività capace di determinarne l’autorevolezza sociale. Richiede una sorta di verità di Stato che risulti legittimamente essere più vera delle tutte le altre concorrenti, a tutela del bene collettivo e anche del proprio privilegio.
Questa condizione, che impone un protocollo e delle regole, costringe l’architettura all’interno di un mondo disciplinato, favorendo la disapprovazione di ogni possibile autonomia e libertà creativa. Quando, con Paolo Ferrara, abbiamo creato questo giornale, che si chiama antiTHeSi non a caso, ci siamo prefissi uno scopo molto semplice e chiaro: produrre uno strumento critico per dimostrare che in architettura non esistono verità incontrovertibili e discipline privilegiate, ma semplicemente delle opinioni che, per dirla popperianamente, al contrario delle teorie scientifiche, non sono assolutamente falsificabili.
Concludo quindi con un invito, a professori e studenti in particolare, a separare il giudizio sui progetti d’architettura. Se da un lato occorre pretendere una ferrea e rigorosa disciplina tecnica, dall’altro occorre favorire la massima libertà creativa. La qualità, anche in architettura, si ottiene per libera competizione e non certamente per censura ideologica.
Relazione presentata al Convegno “La cultura della città” organizzato da Valeria Scandellari a Bocca di Magra (La Spezia) il 21 ottobre 2011, di cui mi riservo di pubblicare in seguito un articolato di tutti gli interventi pervenuti.