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Storia e Critica

E alla fine sopravvisse il peggiore

Le parole di Renzo Piano, espresse al momento dell’inaugurazione del suo ponte sul Polcevera, furono la goccia che fece traboccare il vaso della pazienza di Sandro Lazier.

Il suo articolo “Senza vergogna” (agosto 2020) è tra gli ultimi che ha scritto.

Fu il terzo di un trittico che Sandro iniziò a scrivere immediatamente dopo il crollo del ponte di Morandi.
Nel primo, “Requiem per Genova, e forse per tutto il Paese”, aveva perfettamente compreso che l’operazione di Piano – del proporre il suo nuovo ponte solo qualche giorno dopo il crollo – non si sarebbe arrestata, e che nessuno si sarebbe permesso di farlo.

Nel secondo, “Siamo in alto mare”, tra gli altri argomenti trattati, Lazier poneva l’accento sulla pretestuosa critica di Piano alle attitudini costruttive di Morandi.

Diceva Sandro che “… in architettura la storia insegna che non esistono errori, ma solo scelte che il tempo provvederà a sanare”, intendendo con ciò che “… alla fine, gli errori il tempo li digerisce tutti, ma cionondimeno toglie che sarebbe bene non farli”.

Riparto da questa frase di Lazier quale incipit per parlare di un altro “Ponte Morandi”, certamente meno noto, certamente poco attrattivo, che nessuna archistar ha attenzionato, neanche per intervenire sul dibattito (comunque assolutamente sterile) che si era acceso su di esso subito dopo il crollo di quello più famoso, a Genova. Lo faccio perché credo che la risonanza dell’architettura e della paesaggistica non debbano essere più o meno importanti a secondo del luogo in cui si inverano.

Un “altro Ponte Morandi” che certamente non è meno importante di quanto lo fosse quello di Genova, soprattutto parlandone dal punto di vista squisitamente paesaggistico.

Siamo in Sicilia. Si tratta del “Viadotto Akragas”, così chiamato in onore della gloriosa città della Magna Grecia, poi – nel XX secolo – ridotta ad essere semplicemente “Agrigento”, campo applicativo di una delle più sfrenate speculazioni edilizie d’Italia.

Il nuovo nome lo volle Benito Mussolini, nel 1927, per dare alla città una vera e definitiva connotazione “italiana”, come se la storia della sua fondazione e delle sue magnificenze potesse essere cancellata dal cambio del nome.

Invero, il “nuovo nome” restò anche dopo il 25 aprile 1945, e da lì in poi Agrigento si calò perfettamente nella modernità post bellica. Peccato, però, che lo abbia fatto in modo maldestro, scegliendo la peggiore declinazione della modernità: la speculazione edilizia, che è preludio all’anti-architettura, all’anti-urbanistica, all’anti-paesaggistica.

Il “Viadotto Akragas”, progettato da Morandi, ne è dimostrazione.

Era il 2 settembre del 1966 quando un deputato all’ARS (Assemblea Regionale Siciliana), nel corso del suo intervento, pronunciò queste parole: <<Ho l’impressione che il Comune di Agrigento sia Comune di quelle tali comunità del Far West in cui le questioni della giustizia potevano essere risolte soltanto perché, ad un certo momento “arrivano i nostri”, con mezzi diversi da quelli legali, diversi da quelli della corretta amministrazione. Ma questo poteva accadere nel Far West, non può accadere nella Repubblica Italiana, dove esistono tradizioni diverse>>.

frana di Agrigento del 1945

La famosa frana di Agrigento era avvenuta circa cinquanta giorni prima, verificatasi in una città che -sin dal 1945- era stata inclusa nell’elenco degli abitati soggetti a questo tipo di evento naturale (Decreto Cattani-Togliatti), ma che sino al 1968 non fu inserita in quelle soggette ad eventi sismici.

Dopo il crollo del Ponte sul Polcevera, all’improvviso, destati dal tragico rumore di Genova,

si scatenarono le coscienze di chi vedeva, ad Agrigento, l’imminente pericolo del ripetersi della tragedia.

Eppure, il viadotto Akragas era già chiuso dal marzo del 2017, causa evidenti deterioramenti strutturali. Ci si era accorti che qualcosa non andava, ma la psicosi scoppio tardiva, circa un anno e mezzo dopo, e portò molti addetti ai lavori (architetti, ingegneri, critici, moralisti) a chiederne l’abbattimento.

Demolirlo anche per restituire all’antico sito della necropoli paleocristiana la valenza storica che aveva prima che il viadotto fosse costruito.

In realtà, così come a Genova, nessuna responsabilità poteva essere data a Riccardo Morandi, ma certamente, invece, a chi mai aveva provveduto a far fare la corretta manutenzione del manufatto.

E se è vero che l’architettura e le infrastrutture sono opere che nascono per il bene della collettività, la riflessione che vorrei porre non è quella sull’opportunità di demolire o conservare, risanandole, opere “moderne” che presentano condizioni strutturali al limite.

Piuttosto, considero pregnante il pensiero di Lazier che “… alla fine, gli errori il tempo li digerisce tutti, ma cionondimeno toglie che sarebbe bene non farli”.

Ma, fatto l’errore della costruzione del Viadotto Akragas, credo sia più pregnante capirne le cause, non ponendo l’attenzione dalla sua solidità strutturale, bensì su un altro aspetto, quello della maldestra gestione urbanistico/politica nella storia di Agrigento.

Niente di meglio che prendere quale riferimento proprio il citato discorso all’ARS del 1966, che ben focalizzava il deprecabile assetto urbanistico di Agrigento, allora nel pieno della disgraziata e clientelare gestione politica al potere, attuata dalla DC sin dal dopoguerra.

Ecco, dunque, un altro passo assolutamente significante: “<<Io mi permetto di consigliare a tutti i colleghi di rileggere, se hanno tempo, gli atti parlamentari di quelle sedute (ndr: il parlamentare si riferisce a quelle riguardanti i rapporti mafia-politica emersi già nel 1963).

<< Oggi c’è la dimostrazione di come la Democrazia cristiana riuscì a fare svanire in una bolla di sapore tutta la fatica compiuta per assestare un colpo al sistema di potere basato sul clientelismo mafioso, sulla violazione delle leggi e dei regolamenti, sull’affarismo e sull’arricchimento personale>>.

Sarebbe utile che chiunque abbia a cuore il significato di “bene pubblico” e “interesse pubblico” leggesse quegli atti parlamentari, che darebbero la misura di quanto la gente onesta abbia pagato, e dopo cinquanta anni continui a farlo, gli effetti della compromissione mafia-politica-finanza, che non è patologia esclusivamente meridionale, ma che è ben radicata anche in insospettabili operazioni edilizie di grande risonanza, spesso ammantate di grandeur pseudo culturale. Al nord.

Il viadotto Akragas ne è uno degli emblemi, al sud.

Vediamo perché.

La Commissione Grappelli, preposta a verificare le cause della frana di Agrigento del 1966, pose assoluto vincolo d’inedificabilità proprio nella zona in cui il viadotto sarà poi costruito, a partire dal 1970, per collegare con Agrigento la zona di nuovo insediamento denominata “Villaseta”.

La relazione dell’indagine tecnico-geologica era chiara sulla situazione di pericolo, che sei anni dopo un articolo del Corriere della Sera richiamerà proprio in merito alla costruzione del viadotto: “Villaseta risulta ai limiti di una zona che presenta vistosi aspetti di dissesto geologico ed idrogeologico, che possono essere fortemente esaltati da interventi edilizi o infrastrutturali. Pertanto, in essa non dovrà essere consentita alcuna nuova costruzione o ricostruzione”.

Al momento della pubblicazione dell’articolo (15 dicembre 1972), proprio nell’ambito di quel sito e nonostante l’attuazione del Decreto Gui-Mancini (1968), preposto alla tutela della zona archeologica di Agrigento, il viadotto era in costruzione.

Dunque, nemmeno il decreto d’inedificabilità assoluta fermò gli interessi nati intorno agli appalti miliardari del viadotto.

Risulta ancora tutto più paradossale se solo si pensa che il citato decreto vietava, tassativamente, ai proprietari di modificare i tipi e le forme di colture, nonché di usare, per la lavorazione dei terreni, mezzi meccanici senza l’autorizzazione della Soprintendenza.

Insomma, mentre ai proprietari/contadini di quei terreni era vietato piantare una cipolla… sopra di essi …sorgeva il viadotto, i cui piloni poggiavano su fondazioni scavate direttamente nella necropoli paleocristiana.

Ironia dell’assurdo: proprio dalle sedi scavate per alloggiare le fondazioni dei piloni, l’archeologo Ernesto De Miro, recuperava reperti di grande rilievo.  

In sintesi: era assolutamente vietato scavare per pochi centimetri così da potere coltivare, ma non lo era scavare in profondità per potere alloggiare le fondazioni dell’infrastruttura.

Viadotto Akragas

Il Viadotto Akragas non è certo tra le opere migliori di Morandi, e certamente non basta ila notorietà del progettista per dare valenza ad una infrastruttura, che si poneva in spregio al rispetto paesaggistico del sito archeologico.

Sappiamo bene che tutto il costruito (edifici, infrastrutture, muretti, grattacieli, porti, aeroporti, etc.) entrano in rapporto con il paesaggio, creando paesaggistica.

Qui sta il punto: possiamo avere un meraviglioso paesaggio che però, inserendovi costruito di mediocre livello, è trasformato in deprecabile paesaggistica. Viceversa, lo stesso meraviglioso paesaggio può essere valorizzato dal costruito di qualità, trasformandosi in ottima paesaggistica.

Il viadotto progettato da Morandi, oltre a devastare la necropoli paleocristiana, non fece altro che unirsi ad una già pessima paesaggistica, quella dellamuraglia di palazzi ai piedi della città antica (Girgenti), di cui aveva già sconquassato il rapporto con i templi, e che fu teatro della frana del 1966. Frana da cui nacque l’idea del viadotto, a testimoniare che i mali si concatenano. Il nuovo insediamento residenziale di Villaseta fu edificato proprio per ospitare i senzatetto della frana.

Ma anche qui, qualcosa non torna. Dopo il terremoto del Belìce (1968) Agrigento fu inserita tra le zone a rischio sismico. E lo furono tutto il suo territorio e quelli ad esso confinanti.

Peccato però che a questo puzzle di territori, quasi nel suo centro, mancasse la tessera corrispondente all’area dove sarebbe sorto il Villaggio di Villaseta.

Pur correndo il rischio di essere accusato di dietrologia, affermo senza indugio che la storia della moderna Agrigento sia un compendio (negativo) del malaffare edilizio.

E il viadotto Akragas 1 ne è solo l’elemento fisicamente più evidente.

Dopo il crollo di Genova, si è dibattuto in modo aleatorio: abbatterlo! No, risanarlo!

Ad oggi sono in corso i lavori di risanamento, ma la riflessione da fare esula dalle questioni meramente architettoniche/urbanistiche/paesaggistiche.

Ancora una volta: diceva Sandro Lazier che “… in architettura, quindi, la storia insegna che non esistono errori, ma solo scelte che il tempo provvederà a sanare”, intendendo con ciò che “… alla fine, gli errori il tempo li digerisce tutti, ma cionondimeno toglie che sarebbe bene non farli”.
Esattamente: non farli gli errori.

Dunque, considerando che oramai è lì da cinquant’anni, non resta (ma non è poco) che riflettere e meditare sul perché lì nacque il viadotto Akragas.

Dovremmo riflettere su quanto potere diamo a chi eleggiamo.

Dovremmo riflettere sul fatto che chi è eletto a gestire la cosa pubblica non ha diritto ad alcuna forma di potere, ma ha il solo dovere di rappresentarci al meglio, facendo il proprio meglio.

L’incuria che ha portato al crollo del Ponte Morandi di Genova, architettonicamente parlando ci ha privati di un’opera di grande ingegneria e paesaggistica, sostituita dalla passerella carrabile di Renzo Piano, in attesa che il Parco del Polcevera s’inveri nell’anello rosso di Boeri (sembra che i 35 milioni stanziati per l’inizio dei lavori siano in arrivo), così da cancellare completamente la memoria di Morandi.

dettaglio del Ponte Morandi di Genova

L’incuria che ha portato al deperimento strutturale del Viadotto Akragas 1 la si sta coprendo con milioni di euro, intervenendo parzialmente su alcuni piloni ammalorati, come se quelli non direttamente chiamati in causa dal pericolo di crollo si possano dire essere in perfette condizioni. Riapriranno il viadotto, per qualche anno, forse. Poi lo richiuderanno.

Andava abbattuto, senza se e senza ma, perché continuerà ad essere una infrastruttura mangia soldi, per la felicità di chi ne trarrà beneficio.

Quasi dimenticavo.

L’autore dell’intervento all’ARS di cui parlo fu Pio La Torre. Sarà ucciso nel 1982, dopo anni e anni di lotta contro la corruzione politico-mafiosa.

In attesa che il viadotto Akragas 1 sia riaperto e, poi, richiuso, consiglio a me stesso e a chi lo vorrà, di leggere gli atti dell’ARS che riportano i dibattimenti, le interrogazioni, le mozioni di tutti quegli uomini che hanno lottato per davvero per l’autonomia della Sicilia dalla compromissione politico/mafiosa.

Rileggere La Torre è illuminante, è attuale: <<Signor Presidente, onorevoli colleghi, la frana di Agrigento ha posto la Sicilia ancora una volta all’ordine del giorno della Nazione. Si torna a parlare di questa nostra terra e del modo in cui viene governata. La Camera si è riunita in seduta straordinaria, il 4 agosto, ma non già per prendere provvedimenti straordinari per lo sviluppo economico dell’Isola, per l’attuazione del suo Statuto, per risolvere i problemi dell’Alta Corte, per porre fine all’emorragia dell’emigrazione, fronteggiare la disoccupazione.

<<Siamo all’ordine del giorno del Paese per un fatto senza precedenti: un quarto della città di Agrigento è crollato. Ottomila cittadini, da un giorno all’altro senza casa, hanno perduto tutto: gli artigiani le loro botteghe, i commercianti i loro negozi, gli operai il loro lavoro. L’opinione pubblica – sgomenta – si è chiesta come ciò sia stato possibile. A questo angoscioso interrogativo si è tentato di rispondere invocando il fato, il destino e le calamità naturali che l’uomo non riesce a volte a dominare.>>

Il “fato” e il “destino” delle urne elettorali, da cui, spesso in Italia, hanno avuto origine le calamità artificiali, causate da chi ha governato.

Il Viadotto Akragas nulla ha che possa farlo annoverare tra le grandi opere del suo progettista.

È il peggiore, ma è ancora lì, mentre il migliore non c’è più, frettolosamente ascritto a simbolo negativo.

Anche qui, rileggere Lazier aiuta a riflettere.

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