Antonino Saggio, nel suo ultimo libro dal titolo Lo strumento di Caravaggio (Edizione Kappa) – nuova edizione di una pubblicazione del 2007 – affronta il tema del grande pittore lombardo Michelangelo Merisi da un punto di vista originale e di grande interesse, ma soprattutto coraggioso in tempi di affabulazione culturale diffusa.
Il punto di vista è questo che segue.
Come egli stesso afferma in una recente intervista ad artsblog.it: “Il titolo del libro anticipa il contenuto, che in una parola è questo: ormai è assodato che Caravaggio usa tecniche pittoriche nuove di sua invenzione e che queste tecniche oltre che l’uso dello specchio contemplavano i sistemi ottici e la camera oscura. Il libro spiega il rapporto tra la presenza di questi nuovi strumenti e la visione rivoluzionaria di Caravaggio. Visione che si basa sull’idea secondo cui lo strumento non è mero utensile, bensì materializzazione dello spirito. Proprio lo sguardo nuovo consentito da questi strumenti conduce il pittore in una direzione del tutto inedita e rivoluzionaria.”
Nel seguito dell’intervista, che invito a leggere, e soprattutto all’interno del testo, che invito ad acquistare, Saggio affronta altri argomenti compositivi della rivoluzione caravaggesca, e lo fa con il solito acume e con l’apertura intellettuale che gli viene da anni di indagine nelle varie esperienze dell’intelligenza, da quella artificiale a quella che indaga la più eterodossa frontiera sperimentale dell’architettura.
In questa sede, mi preme mettere in rilievo un aspetto per me principale del suo approccio critico.
La critica d’arte corrente, quasi completamente in mano agli storici, nella descrizione delle opere predilige l’aspetto narrativo rispetto a quello descrittivo. Si trattano comunemente i quadri come racconti figurati in cui la trama esaurisce completamente l’esegesi dell’opera, confinando la scrittura a puro artificio tecnico d’importanza molto relativa.
Differenze di tono o rivoluzioni espressive, che in Caravaggio assumono una rilevanza universalmente manifesta, nella critica tradizionale prendono addirittura i toni del moralismo, aspetto questo ovviamente condizionato dalla tumultuosa biografia del personaggio. Piedi e unghie sporche, fanciulli malati, frutta avariata, diventano alibi per emancipare in senso etico una figura (fortunatamente) discutibile per la sua complessità. Il tutto avviene in una specie di beatificazione artistica nella quale le motivazioni tutte, non difficili da rintracciare in un autore così evidentemente abile, concorrono alla dimostrazione di una tesi precostituita.
Processo che, nella massima disinvoltura, per l’assenza pressoché totale d’una diffusa educazione all’arte, può arrivare fino alla burla, come in una recente conferenza in cui, Vittorio Sgarbi, in assoluta immunità intellettuale, suggerisce affinità antropologiche tra le origini bergamasche del nostro autore e il leghismo dei nostri giorni.
Si tratta quasi sempre di un processo teleologico – voglio dimostrare una cosa e cerco solo quegli argomenti che la possano sostenere – nel quale il testo critico – e meglio ancora la conferenza parlata dove, appunto, toni, pause e sfumature valgono spesso quanto le cose che si stanno raccontando – vale in efficacia più per la propria compattezza narrativa che per i fatti che si possono effettivamente dimostrare.
Ebbene, Saggio, al contrario, ci propone una lettura, potremmo dire, laica.
Egli ci riporta Caravaggio in terra e, come in un esperimento scientifico nel quale la tecnica, e non le emozioni, controllano il risultato, prova a presentarcelo nelle condizioni principali e necessarie di chi effettivamente si appresta a riprodurre con la massima fedeltà le cose che vede, distendendo colori sopra una tela. Il risultato è sorprendente, perché ribalta il concetto classico che vuole la scrittura genuflessa alla trama del racconto.
La scrittura, e gli strumenti che la realizzano soprattutto in un ambito figurativo, sono invece la condizione necessaria per l’esito di un dipinto. E lo sono soprattutto per il superamento del suo limite ideale. Principio, questo, che vale per ogni epoca.
Essa, la scrittura, influenza profondamente l’evento creativo, secondo un processo familiare presso chi si occupa d’interazioni e di complessità. Si tratta di una sorta di fare facendo, in cui la misura del proprio limite espressivo, oltre che da un’indispensabile talento, è determinata dalla capacità complessiva, individuale e strumentale, di figurare l’osservazione durante tutto il processo creativo.
Questo è particolarmente evidente oggi nella professione degli architetti in cui la possibilità di controllare digitalmente l’esito progettuale concede libertà espressive impensabili prima dell’avvento dell’informatica. Spetta poi ad ognuno stabilire quali limiti superare.P.S: – Al fine di rendere meglio comprensibile l’ultima parte del testo, mi permetto una considerazione ulteriore, di carattere sicuramente più generale, ma credo precisa nell’individuare la base d’avvio del ragionamento che ha ispirato l’articolo e l’elogio dello scritto di Saggio.
Le parole (i segni) ci abitano, abitano il nostro pensiero.
Architetti, pittori, scultori o scrittori che sia, noi realizziamo il nostro pensiero, che è la nostra coscienza, solo con l’uso strumentale delle parole che conosciamo.
Ma, nello stesso tempo, noi abitiamo le parole.
Solo in loro, che siano segni o parole, troviamo consapevolezza di cosa ci contiene e ci circonda. Viviamo questo dualismo, una trappola in cui le parole, se non sappiamo dominarle, c’imprigionano. E allora il nostro linguaggio diventa la nostra prigione, galera di ogni nostro pensiero.
In questa prigione ci possiamo arrangiare a vivere, come fanno i tradizionalisti che la ritengono un bel posto, o peggio i postmoderni che, tale gabbio, visto che secondo loro non c’è di meglio, se lo sono decorato.
Ma nessun uomo libero e intelligente può accettare questa condizione. Per questo nessun artista autentico riesce a sopravvivere imprigionato nelle parole del suo tempo.
La storia dell’arte, principalmente, non è che la storia della lotta degli artisti di liberarsi della schiavitù dei segni, delle parole, le sole capaci d’interfacciare il pensiero con la realtà dei sensi (quelli biologici, intendo).
Le parole, pericolose, per loro natura dispotiche perché devono dominare la comunicazione, visti gli esiti sulla realtà che ci circonda, sono d’una natura estremamente concreta. (Derrida dice le parole essere della stessa natura dei virus informatici, che non hanno una una biologia, ma producono effetti devastanti sulla realtà). Per un architetto, o un pittore o uno scultore, le parole sono perfino d’una consistenza fisicamente concreta, per costruire le quali occorrono strumenti e artifici decisamente efficaci. L’impegno dell’artista originale, autentico, diventa quindi quello d’una guerra contro i segni che lo tengono imprigionato, che dovrà necessariamente annientare per costruirne di nuovi. L’esito delle battaglie dipenderà principalmente dalle armi, strumenti e strategie, che saprà mettere in atto. In guerra, in fondo, non vince mai chi ha i sentimenti migliori, ma chi ha gli strumenti migliori.