La XIV° biennale d’architettura di Venezia, diretta da Rem Koolhaas, parte male.
Parte male perché, secondo me, è sbagliata nei suoi presupposti che lo stesso Koolhaas ci comunica: “Nel 1914 aveva senso parlare di architettura “cinese”, architettura “svizzera”, architettura “indiana”. Cent’anni dopo, sotto la pressione di guerre, regimi politici diversi, molteplici condizioni di sviluppo, movimenti architettonici nazionali e internazionali, talenti individuali, amicizie, traiettorie personali casuali e sviluppi tecnologici, le architetture che un tempo erano specifiche e locali sono diventate intercambiabili e globali. Sembra che l’identità nazionale sia stata sacrificata sull’altare della modernità.”.
Nel 1914 era vero il contrario.
Le avanguardie storiche (1905-1930) stavano mettendo sottosopra un mondo talmente incoerente che dal neoclassico ottocentesco – questo sì vero movimento globale perché lo si ritrova ovunque, Svizzera, Cina o India che sia, nelle varie sfumature dell’imperialismo occidentale- era finito nell’eclettismo più insolente e popolare. Non è il caso di ricordare la sfilza di neo stili, dal neoegizio al neogotico passando per tutta la storia dell’architettura, che s’incontrano in processione nelle nostre città storiche di fine ottocento. Non è nemmeno il caso di ricordare come la stessa nascita del nuovo stile, liberty o art nouveau, abbia di fatto cambiato nome nei diversi paesi molto più della propria connotazione stilistica.
Nel 1914 non aveva proprio nessun senso parlare di architetture nazionali, nemmeno nella loro accezione etnica. Di guerre nazionali alle porte sì, ma di architetture assolutamente no!
Tema, invece, che fu affrontato criticamente solo molti anni più tardi, dopo la seconda guerra mondiale, da una successiva avanguardia che s’era posto il problema di ricostruire sulle rovine del conflitto, oltre le case, anche un po’ di memoria. Il che avvenne senza rendersi conto della pericolosa duttilità dei ricordi.
Ed è proprio questo, secondo me, il punto chiave.
Gli storici sanno bene che l’aspetto più delicato del loro lavoro consiste nel proteggere i fatti dagli assalti dei ricordi. I fatti sono fatti, sono quel che sono. I ricordi, invece, per essere espressi hanno necessità di stare a cavallo d’un racconto. I racconti, a loro volta, per essere efficaci hanno bisogno d’una trama, verosimile sempre, vera non lo sappiamo. Tenere distinti i fatti dalla forma del loro racconto è sempre operazione difficile e delicata. Questione che conoscono bene anche i tribunali, ma non voglio dilungarmi troppo su questo argomento.
Mi preme, invece, mettere l’accento sulla questione per me fondamentale che, quando si ha a che fare con la memoria nazionale, l’identità d’un popolo, o tutto quello che quest’identità pretende d’esprimere artisticamente, provo un’istintiva diffidenza.
Intanto, nella mia concezione rigorosamente laica e moderna dello stato, un popolo è poco più che un’entità statistica definita geograficamente e soggetta ad un ordinamento circoscritto. Detto questo, che mi pone al riparo da ogni metafisica dell’appartenenza, non credo possa esistere uno spirito di popolo in grado di catalizzare un comune sentimento verso una particolare forma d’architettura piuttosto che un’altra. Se nella storia, ma sono casi rari che riguardano periodi relativamente brevi, la diffusione di alcune architetture coerenti ha caratterizzato parti di territorio, lo si deve più alla concomitanza di contingenze economiche, politiche, teoriche e tecniche costruttive che ad una trascendente identità di popolo. L’architettura vernacolare, caratteristica di gran parte d’Italia, rientra pienamente in questa considerazione, nella quale prevalgono necessità contingenti e abitudini edilizie.
Purtroppo, proprio grazie ad una concezione miope dello storicismo, alcuni intellettuali, orfani d’un’autentica indole creativa, hanno riscritto una parte della narrazione storica forzandola all’interno d’una trama preconcetta, manipolando teleologicamente i fatti architettonici, sciogliendone le particolarità dentro il contenitore d’un comune senso nazionale garantito dalla storia. Il neorazionalismo sconfitto, di Aldo Rossi, di Oswald Mathias Ungers – ricordo che è stato maestro del nostro Koolhaas – di Giorgio Grassi, di Vittorio Gregotti, di Paolo Portoghesi – e sicuramente ne dimentico molti – ha occultato per decenni la propria incapacità creativa, la propria inadeguatezza teorica, nelle rughe del peggiore storicismo trascendente.
Io credo che l’architettura non abbia necessità di ritirare in ballo né il nazionalismo di comodo di questi personaggi, né il vernacolo dello strapaese – fonte d’ispirazione della quasi totalità dei piccolo comuni italiani, i cui amministratori paiono più preoccupati di perdere un’identità piuttosto che trovarne una nuova – né quello che Rem Koolhaas intende proporci come tracciato d’un processo d’emancipazione architettonica da riscattare sul cadavere di fantomatiche architetture nazionali.
Un’ultima considerazione.
Una lettura evolutiva della storia dell’architettura, come quella che Koolhaas ci sottopone, non è più attuale.
Nel nostro paese, per esempio, oggi convivono tendenze tradizionaliste, neorazionaliste, vernacolari, moderniste, per usare un termine che ne raccolga grossolanamente lo spirito, e anche passatiste. Tutte coesistono, nel bene e nel male, in un territorio comune che chiamiamo Italia. Tutte coabitano, addirittura, nello stesso ordine professionale. Nessuna di loro è scomparsa sopraffatta dai tempi. Tutto convive e sopravvive.
Il web, che per sua natura scavalca le gerarchie epistemologiche tradizionali, concreta con la massima evidenza ciò che ho appena sostenuto. Non lo so se questo sia un bene o un male, ma la biennale del nostro nuovo direttore, a quanto pare, non darà risposta a questa domanda, semplicemente eludendola. Una risposta evidentemente politica che vorrei approfondire in un articolo successivo.