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Storia e Critica

Mosco colpisce ancora

Valerio Paolo Mosco deve avere una particolare affezione per Bruno Zevi. Non riesce fare a meno di lui nemmeno quando non è il caso di scomodarlo. Lo aveva citato qui nel mese di luglio 2013. Lo ha fatto ancora, recentemente in un articolo apparso su ZeroUndici+ dal titolo Not-quite-architecturededicato alla recensione di alcuni lavori di Elasticospa, studio d’architettura torinese particolarmente attivo e vivace.
Riesce a citarlo in negativo per promuovere alcune architetture recenti che personalmente sembra apprezzare ma, secondo me, senza capirne veramente la ragione, facendo una grande confusione tra intenzione ed esito dell’architettura, scambiando il vocabolario con il linguaggio.
Ho avuto la fortuna di confrontarmi, come architetto, alcune volte con Bruno Zevi, quindi credo di poterne parlare con coscienza di causa e, soprattutto, con la conoscenza delle poche cose che ho afferrato con certezza del suo insegnamento, tra le tante che la qualità del personaggio era in grado d’indagare e studiare, spesso confondendo interlocutori sicuramente molto più preparati di me.
Un giorno inviai a Roma, in via Nomentana 150, alcuni schizzi che, secondo me, accoglievano con linguaggio decisamente espressivo tutto quel carico emozionale e irriverente che credevo essere un condensato delle sue tensioni ideali. Mi avevano ispirato gli stessi ragionamenti e le stesse argomentazioni, tra il sociologismo e lo psicologismo, tra il vernacolo e il citazionismo, che Mosco usa in questo testo critico per timbrare alcune opere che recensisce come zeviane. Grazie al trasporto che avevo fatto mio e che mi proveniva da una lettura appassionata dei testi zeviani, confidavo ingenuamente in un consenso quasi scontato.
La risposta di Zevi fu: “…ma lo spazio, dov’è?” Risposta che demolì ogni mia certezza e rimise in gioco ogni mia concezione.
Il fondamento della teoria zeviana, imparai allora e decisi di mai più scordarlo, è lo spazio.
Senza questo presupposto non può esserci giudizio sulla sua teoria critica e non si possono bollare come zeviane architetture che negano la spazialità in favore di concetti anche inusuali o innovativi, come il non finito o l’utilizzo irriverente di qualche materiale considerato scadente.
Senza valore spaziale, senza poetica spaziale, non c’è architettura.
Se faccio esperienza di uno spazio complesso, vibrante, intenso, non ho necessità di dettagli ricercati o materiali o effetti particolari. Questi concorrono, a volte danno senso, come la punteggiatura in un testo scritto, ma non reggono da soli il racconto. Solo se l’architettura è muta, banale, senza spazio, solo allora avrò necessità di dettagli e materiali con forte personalità per destare un qualche interesse.
Detto questo, vorrei dibattere gli argomenti essenziali del giudizio di Mosco.
Dice Mosco: “ELASTICOSPA sono zeviani in quanto seguono i dettami di Zevi. Nell’ordine: la ricerca di un linguaggio basato sulla dissonanza, sulla tridimensionalità antiprospettica, sul coinvolgimento strutturale nell’immagine dell’edificio, sulla “temporalizzazione” dello spazio, sulla “reintegrazione edificio/città/territorio” e per ultimo (elemento essenziale della poetica di ELASTICOSPA) sulla integrazione tra il linguaggio parlato, spontaneo e dal basso e quello alto”…
Secondo Mosco i progetti recensiti, dei quali non entro nel merito, sono zeviani in quanto adotterebbero i suoi dettami: le invarianti.
Lo ribadisco per l’ennesima volta, Zevi non ha mai dettato nulla. Le invarianti zeviane sono ricavate da tremila anni di storia e servono esclusivamente a leggere le architetture secondo una nuova prospettiva. Solo una concezione banale della teoria porta qualcuno a confondere e rendere equivalenti atti che non lo sono. Leggere e scrivere non sono atti simmetrici. Ciò che serve per leggere non è necessariamente ciò di cui abbiamo bisogno per scrivere. In fondo, si legge con gli occhi e si scrive con le mani, operazioni neurologicamente ben distanti.
Io fatico a credere che i costruttori delle le caverne preistoriche o dei trulli o dei nuraghe seguissero i dettami zeviani. Le invarianti sono chiavi di lettura, non sono un manuale di pronto uso. Tanto è vero che Zevi promosse il manuale dell’architetto nel classico modo ottocentesco: un elenco di soluzioni funzionali, senza nessun accenno al linguaggio. Zevi sapeva benissimo, in quanto antiaccademico, anticlassico e antimonumentale, che non esistono regole per produrre poesia.

Continua Mosco: “Nel rutilante e catturante scrivere di Zevi si è attratti dall’appello nei confronti della libertà espressiva, nei confronti della fiducia che il singolo, l’autore, sia capace di tenere insieme questi precetti. Leggendo Zevi, possibilmente emendandolo dalla deriva reazionaria (ha sempre bisogno di un avversario verso cui reagire)…”
Trovare nella stessa frase l’esaltazione di Zevi in favore della libertà espressiva e l’accusa d’essere egli stesso preda d’una deriva reazionaria non ha molto senso. A meno che, per Mosco, reazione e libertà espressiva stiano dalla stessa parte.
Zevi non reagiva. Zevi agiva. Non aveva bisogno di avversari semplicemente perché lui era l’avversario di tutto il circo equestre della cultura universitaria, proprio per le sue aperture liberali anche rispetto alla creatività formale. Il che metteva in ginocchio l’autorevolezza di un sistema accademico fondato sul castigo del disegno architettonico.

Ma come accade spesso al liberalismo radicale il pensiero di Zevi ha subito una torsione al negativo di cui il primo artefice è stato il suo stesso autore.”…
Zevi artefice di una torsione al negativo del proprio liberalismo radicale? Non si capisce di cosa parli Mosco. Zevi, tranne alcune rarità di poco peso,  non ha mai costruito, come poteva essere artefice del proprio fallimento? Neppure si è mai contraddetto e non ha mai rinnegato nulla fino alla fine, anzi! Di che torsione al negativo stiamo parlando?
Se parliamo di postmoderno siamo tutti d’accordo, ma Zevi non c’entra nulla. Se parliamo d’incapaci che scimmiottano,  allora bene, la storia ne è piena. Il talento non si insegna. Quindi dovremmo sopprimerlo o castigarlo perché qualcuno, pensando illusoriamente di possederlo,  potrebbe abusarne?
Siamo un paese strano. Gli stranieri vengono da noi per le opere dei nostri grandi talenti del passato e, nelle scuole, facciamo di tutto per castigare quelli futuri.

Tradotto in altri termini: ben pochi possono essere zeviani.”…
Per Zevi l’architettura, la grande architettura, nelle condizioni culturalmente ingessate del nostro paese, era e rimane un atto eroico. E di eroi, si sa, non se ne incontrano molti.

“…in quanto hanno introiettato nel loro lavoro gli anticorpi per evitare le derive zeviane. Il primo degli anticorpi è la coscienza che non basta un impianto generale dell’oggetto architettonico libero, anti-scatolare ed espressionista per dar vita ad una buona architettura. La libertà di configurazione generale infatti va bilanciata con una attenzione al dettaglio, alla scala minuta; in definitiva la narratività del generale deve trovare un adeguato rispecchiamento in quella del particolare ed è proprio in questo rispecchiamento che si gioca la qualità dell’architettura organica.”…
La qualità dell’architettura organica sta proprio nel contrario della scala minuta. Sta nella scala territoriale. Nella scala del paesaggio. Chi se ne importa del particolare fine a se stesso o, peggio, di quando si affida solo al dettaglio e alla finitura tutto il racconto dell’architettura.
Ben venga la “deriva” zeviana se ci emancipa dal bricolage, dalla sartoria e dalla cosmesi. Vogliamo parole grezze ma sature di vita. Vogliamo parole che muovano il mondo soprattutto con la forza dei sentimenti e della poesia. Vogliamo frasi disturbate e parole volgari, che dicano che vogliamo vivere senza dover aspettare educatamente di poter alzare il ditino per dire una stronzata che non dà fastidio a nessuno. Abbiamo nausea di dettagli esasperati, delicate parole ricercate per dire banalità smisurate. L’architettura, in quanto arte pubblica, ha il dovere di mostrare meglio delle altre la realtà per come è, indagandola in profondità nella sua crudezza, senza il galateo imposto dal conformismo prezzolato di quella che un tempo veniva chiamata industria culturale di stato.

Il punto è essenziale. Come sappiamo gran parte di quella che Zevi chiamava con disprezzo “architettura accademica” si fonda su due precetti che risalgono a Leon Battista Alberti: quello della finitio, per cui la forma deve essere conclusa, e quello del nihil addi, secondo il quale nulla sarebbe potuto essere aggiunto ad un’opera di qualità senza turbarne l’effetto generale e conseguentemente la qualità. Ciò è evidente nella architettura prescrittiva degli ordini pre-moderni o per il classicismo in generale, ma lo è anche per l’architettura empirica e narrativa o organica che dir si voglia, anche se questa non ha regole prescrittive scritte ma per così dire se le guadagna volta per volta sul campo. Viene in mente allora Frank Lloyd Wright: nelle migliori opere (personalmente preferisco del suo regesto le Usonian Houses) è rispettata una finitio, come anche è rispettato il nihil addi.

Ebbene, qui Mosco la spara grossa. Sostenere che le architetture di Wright sono finite, chiuse, compiute, alle quali non è possibile aggiungere o togliere nulla senza alterare l’insieme è spararla talmente grossa che sa di battuta.
La teorizzazione più evoluta dell’architettura organica, tema notoriamente caro al nostro autore americano, è la geometria frattale. Un processo creativo espresso mediante un algoritmo che non ha inizio e non ha fine. Esso può crescere all’infinito e ridursi all’infinito. Pare che Wright, preso dalla foga creativa, aggiungesse fogli quando, giunto al limite di quello su cui stava lavorando, avesse necessità di continuare il disegno. Non conosceva limiti a priori e, quindi, non governava il progetto aprioristicamente ma durante la sua realizzazione. Questa si chiama progettazione aperta, che dà origine a progetti aperti, senza confini compositivi; progetti che possono crescere o ridursi a piacere, secondo la sensibilità e la mano dell’autore. L’unico aspetto geometrico sempre controllato è la scala, perché ogni spazio progettato risponde solo alla scala umana e l’articolazione degli elementi compositivi non alterano mai il rapporto di scala complessivo dell’edificio, nella percezione d’insieme dei suoi abitanti. L’architettura organica non ha niente a che fare con il controllo della composizione del disegno, tipico invece della progettazione classica, ma adatta le sue geometrie al momento, all’uomo, alla sua vita e al contesto naturale in cui questa avviene. Il disegno è un utile strumento di comunicazione ma non è mai l’architettura. Nell’architettura organica lo spazio non è mai prigioniero del disegno.

Tralascerei di commentare un frammento sull’architettura spontanea che mi pare irrilevante e verrei alla parte finale del testo di Mosco.
Dopo un elogio dell’irrequietezza e dell’inquietudine formale che ha accompagnato, secondo Mosco, le migliori architetture degli ultimi vent’anni (vedo in questa descrizione un architetto in preda a disagio, un po’ incazzato con la vita, che riesce anche ad imprecare, ma niente bestemmie, parolacce e dita nel naso che non vanno bene) sentenzia:
Bruno Zevi aspirava a quella che in un suo editoriale chiamava not quite architecture, ma aimè specialmente nel suo ultimo periodo, quello dell’infausto Manifesto di Modena in cui sposava il decostruttivismo, la sua irrequietezza era diventa scompostezza gratuita, compulsione formale, esibizionismo plastico.”
Io c’ero. Vi giuro che al congresso di Modena io c’ero. Mosco non lo ricordo.
Per farla breve, Zevi a Modena ci disse che, come architetti, potevamo dire parolacce liberamente e metterci le dita nel naso; purché lo facessimo con poesia  e con stile, perché l’architettura è la nostra vita e la vita è soprattutto una battaglia per la libertà e per la felicità che la realizzazione di questa comporta. Se questa è la meta, essere scomposto, compulsivo ed esibizionista per me diventano virtù.

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