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Storia e Critica

Il progetto di Fuksas per il Centro Congressi Italia all’Eur a Roma

Sabato 29 ottobre, si è inaugurato il Nuovo Centro Congressi all’EUR di Roma, che Massimiliano e Doriana Fuksas hanno progettato dopo incarico ottenuto con pubblico concorso 18 anni fa.
Diciotto anni costellati di ritardi, liti, rinvii per mancanza di fondi, con tutto il corollario di polemiche che ne sono seguite. Polemiche che, ovviamente, si sono concentrate e sommate nel momento dell’inaugurazione, dividendo pubblico e cittadini tra favorevoli e contrari, tra entusiasti ammiratori e accaniti detrattori.
Tutto quanto nelle migliori tradizioni dell’architettura, che hanno riservato alle novità sempre la stessa vivace accoglienza, soprattutto da parte di coloro che non ne sanno molto in materia ma si sentono in diritto di sparare, nel mucchio delle sciocchezze, sentenze e giudizi in virtù dell’indole pubblica della medesima.
E come vuole la migliore tradizione, non mancano gli sproloqui dei tanti conservatori della sapienza pedante che, data la loro formazione poco avvezza alle evidenze della scienza, trovano argomenti quasi sempre letterari per condannare ciò che con la letteratura non ha nulla da spartire. Con la danza e la musica forse, ma sicuramente non con la letteratura e le sue considerazioni sulla condizione umana.
Ciò premesso, vorrei dare il mio giudizio, ma liberandomi innanzitutto delle ragioni principali che i detrattori utilizzano per condannare e addirittura ridicolizzare l’opera in questione.

La prima ragione riguarda il costo eccessivo che viene imputato all’opera. Tantissimo denaro che, in un’epoca di crisi e ristrettezze, sarebbe meglio servito a curare le ferite di un paese in ginocchio.
Ora, voglio ricordare che se le architetture dovessero nascere in ossequio a questa banalissima evidenza etica, Roma non sarebbe il capolavoro che conosciamo. Sicuramente non ci sarebbero chiese, Basilica di San Pietro compresa, tutte realizzate sottraendo denaro ai poveracci del mondo cristiano, con la promessa della vita eterna. La verità è che, la vita eterna, questa città l’ha conquistata grazie alle sue cattedrali e ai suoi monumenti, finanziati tutti con l’illusione di conquistarsi il paradiso. Quindi, con un minimo di lungimiranza, è facile comprendere che il valore di un’opera d’arte supera i limiti del tempo e del momento, quindi del denaro che è stato necessario per realizzarla. Se si facesse la somma delle stupidaggini senza futuro finanziate con i mille rivoli della politica del consenso, che ha sperperato i soldi pubblici in questi anni, ci si potrebbe permettere un’opera d’arte vera ogni anno.

La seconda ragione riguarda la metafora della “nuvola nella teca” e la retorica pittoresca che ne ha compromesso la lettura architettonica. Molti lamentano la pesantezza e la poca trasparenza della sala centrale, oltre l’eccessiva orditura della scatola vetrata esterna, che insieme mortificherebbero la somiglianza tra l’idea e la sua realizzazione.
Detto onestamente, a me non importa molto se ciò che si coglie è più la visione di una patata in gabbia che di una nuvola racchiusa nella teca vetrata. Le cose, e le nuvole in particolare, si prestano alle figurazioni più disparate, e la fantasia e l’ironia di ognuno possono volteggiare come meglio credono.
Importante, secondo me, è che, da un punto di vista architettonico, questa “cosa” non è stata costruita né per fare la nuvola e funzionare come una nuvola, né per fare il tubero e finire nell’olio fritto, ma per contenere sale ed auditorium in una configurazione informale rispetto all’involucro stereometrico che la ospita. Altre letture non mi interessano e distraggono solo l’attenzione e non hanno nessun valore da un punto di vista rigorosamente critico.

Ora, al di là di queste due irrilevanti ragioni, occorre stabilire se siamo di fronte ad un’opera d’arte vera o ad una costosissima gigionata. Operazione possibile solo se si hanno strumenti e, possibilmente, le competenze critiche necessarie per dare un giudizio approfondito. Ovviamente, la qualità di tale giudizio, spetta sempre ai lettori infine giudicare.
Bruno Zevi, al quale mi ispiro senza indugio quando sono in difficoltà, sosteneva che per dare giudizi sull’architettura occorre innanzitutto conoscere l’architettura. Sembra una frase banale ma non sempre è così scontato nel mondo dei giudicanti. Voleva dire, in effetti, che occorre di fatto essere architetti, capaci di leggere un progetto attraverso gli strumenti della sua rappresentazione, che sono le piante e le sezioni.

Analizzando i disegni di pianta e sezione è possibile cogliere la difficoltà dell’impianto e le sue soluzioni progettuali (non solo formali), e da una loro lettura attenta è anche possibile definire il grado di accuratezza e di profondità del progetto nel suo insieme. Raramente, se l’esito di questo esercizio ha procurato in voi soddisfazione, sarete delusi dall’opera realizzata. E questa corrispondenza risulta maggiormente affidabile quando il progetto presenta un alto grado di complessità.

In questo caso la complessità risulta elevata, e sicuramente ha costretto gli autori della progettazione esecutiva ad un confronto faticoso ma fertile e soddisfacente. La qual cosa è sempre evidente nella risoluzione dei dettagli, nell’incontro dei piani e dei nodi, risolti mai in modo banale. Il progetto è stato di certo fortemente pensato e gestito con rigore.
Come per prodigio, il rigore della progettazione e dell’esecuzione dei dettagli concorre sempre a promuovere il risultato anche spazialmente; in questo caso, data la scala monumentale che non favorisce sicuramente la concentrazione visiva, pare essere risolto senza pause inespresse.
Il mio giudizio, quindi e per quel che vale, è per ora positivo.
Avrò la fortuna di essere a Roma tra un paio di mesi e avrò la possibilità di una visita di persona.
Sono sicuro che non ne resterò deluso.

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