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Storia e Critica

Morandi per noi

Alla metà degli anni settanta, come tutti i giovani che avevano compiuto i diciott’anni (diciott’anni volevano dire patente di guida) feci visita per la prima volta al Salone dell’automobile di Torino.
Nell’importante spazio del palazzo delle esposizioni, un grande edificio razionalista progettato nel ‘38 da Ettore Sottsass senior in collaborazione con Pier Luigi Nervi, e successivamente ampliato in occasione del centenario dell’unità d’Italia, entrai nel salone sotterraneo di Riccardo Morandi. Ne fui rapito. Credo al punto che, come me molti altri giovani, se hanno in mente un futuro ancora incerto, in luoghi come questo possono trovare le risposte e le conferme di cui hanno disperata necessità.

Padiglione interrato – Torino Esposizioni (1960)
Come ogni ragazzo che immaginava il proprio futuro sullo sgabello d’un tecnigrafo, mi chiedevo da chi e da dove venissero tanta perizia e coraggio, insieme a tanta eleganza e capacità di far danzare in questa mirabile maniera la forza di gravità. Riccardo Morandi aveva sicuramente questa capacità.
Qualche anno dopo, dovendo partire per un lungo soggiorno in Africa equatoriale, luogo che richiedeva una serie di vaccinazioni non convenzionali obbligatorie (…altri tempi), avrei dovuto raggiungere gli uffici sanitari del vecchio porto di Genova. Arrivando da Sestri Ponente, attraversai il ponte Morandi. L’emozione fu la stessa. E permase nel tempo, ed ogni volta, conoscendo meglio Genova e le sue acrobazie urbanistiche, ammiravo con maggiore convinzione la scelta d’un ponte tanto ardito e volutamente presente, invasivo. Un segno qualificante in un contesto mediocre, come tutte le periferie cresciute nell’entusiastica confusione del dopoguerra. Un periodo che io ricordo molto bene, perché mio padre, al tempo, lavorava per il gruppo Gavio, Italstrade. Aveva compiti di topografia e tracciamenti. La sua presenza nei cantieri era costante. In casa si respirava l’aria del futuro, della scoperta, del progresso.
Dice l’ing. Gabriele Camomilla, ex direttore della Ricerca e Manutenzione di Autostrade: “Il Italia è nata la prima autostrada al mondo. Siamo stati noi con l’Impresa Puricelli di Milano, divenuta poi Italstrade a “inventare” e poi insegnare negli anni 20 e 30 come si realizzavano le autostrade. Dagli anni sessanta l’autostrada Firenze Bologna divenne il riferimento delle scuole di ingegneria dei ponti di tutto il mondo. Nei grandi 80 ponti presenti erano state adottate di fatto tutte le diverse tecnologie che si conoscevano allora. Questo fu fatto al fine che, ogni impresa titolare di lotto, realizzasse quella in cui era più esperta (un viadotto ad arco gigantesco lo fece proprio Morandi). Ne derivò una varietà di tecniche amplissima, realizzata con velocità record e, naturalmente, con una serie di problemi successivi quando l’arteria divenne “l’aorta” d’Italia in sviluppo.”1

Viadotto Bisantis di Catanzaro di Riccardo Morandi
Questo era il contesto in cui è nato il ponte sul Polcervera, orgoglio e primato dell’intelligenza italiana nel mondo. Se c’è una ragione nella frase “prima gli italiani” questo è il caso di pronunciarla in senso nobile.
Oggi, a più d’un mese dalla tragedia nella quale una parte di questo capolavoro dell’ingegneria è crollato, facendo 43 vittime, credo che ognuno di noi stia cercando di elaborare una qualche considerazione sensata e, soprattutto, ragionata. Molte sono state già espresse, probabilmente sull’onda dell’emozione o della speculazione politica o mercantile. Ho sentito addirittura considerazioni sull’eventuale errore di progettazione e di calcolo, di cui Morandi sarebbe stato responsabile, ma al di là di queste stupidaggini che hanno più il sapore della cialtroneria che della competenza specifica, credo che mai come in questo caso occorra ricorrere al buon senso. C’è una città divisa e in grande difficoltà. Ci sono abitanti allontanati dal proprio quartiere e dalla propria casa, con tutti i disagi e le sofferenze che le relazioni umane comportano. Cosa può avere senso?
La domanda che mi sono posto è, quindi, questa: il viadotto Polcevera è lungo circa 1.200 metri; ne è crollata una parte lunga 200 metri. Ha senso rimuoverla tutta per ricostruirla? Chiedo a uno di voi, se possedeste una bella dimora e ne crollasse una piccola parte, la demolireste tutta per averne una nuova?
Il buon senso direbbe che riparare costa meno, è più rapido ed è meno traumatico. Se una persona perde un arto non la si sopprime, ma la si cura, riportandola alla vita e, se le tecnologie lo permettono, alla corsa.
La prima obiezione, ovviamente, è: esiste una cura adeguata e, se possibile, migliorativa?
Sempre Gabriele Camomilla, il cui cognome, tra l’altro, allude ad una valutazione sicuramente misurata, autore del restauro della torre 11 nel 1992, così dice: “Mi sembra insensato e colpevole demolire tutto sull’onda di una emozione enorme, ma che deve essere controllata da parte di chi ha responsabilità reali sulla vita della città, della regione ed anche dello Stato. Con le tecnologie che oggi abbiamo a disposizione salvare il ponte è possibile, come lo era già stato nel 1992.”

La seconda obiezione è: perché tenere un manufatto vecchio e superato?
Vecchio e superato? Tre quarti d’Italia, quindi, sarebbe da demolire?
Altra obiezione, più tecnica. Perché precomprimere i tiranti? Non è un errore progettuale che giustificherebbe la demolizione?
Risponde Camomilla: “… in quegli anni non c’erano le tecnologie di oggi, in cui i trefoli sono inseriti in guaine in polietilene pesante ed ingrassati. Da non confondere con le abituali tecniche di protezione dei precompressi “normali”, basate su trefoli inseriti in guaine d’acciaio in cui sono pompati cementi speciali (sia per prestazioni che per reologia) per la protezione dell’acciaio. Nello strallo la protezione era costituita da conci in calcestruzzo che, a strallo tesato, venivano precompressi con appositi ulteriori cavi, che impedivano che detto rivestimento protettivo andasse in trazione e si fessurasse al passaggio dei veicoli e/o per motivi di temperatura o altro. Quella era la tecnologia innovativa morandiana, per proteggere l’acciaio in un ambiente soggetto a forti aggressioni, anche per come funzionano gli stralli che sono degli appoggi “dall’alto”, mobili sotto traffico.
Il calcestruzzo era precompresso, per garantire l’assenza di fessure; solo in seguito si sono sviluppati gli stralli separati ad “arpa” ricoperti di polietilene pesante come quelli usati nella riparazione. La precompressione però la rendeva difficile come rende difficile qualsiasi demolizione incontrollata.” 
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Oggi esiste una scienza delle riparazioni, che si chiama terotecnologia, che si occupa di prevenire, monitorare e ripristinare opere ed infrastrutture messe a dura prova dal tempo e dall’usura. L’ing. Camomilla ne è uno dei massimi esperti. Egli ha dichiarato che l’esperienza di questi anni ha verificato, con tecniche e materiali opportuni, la possibilità di ridare vita a strutture datate o parzialmente compromesse, per un numero di anni almeno triplo di quello per cui tali opere erano state pensate.
La riparazione è quindi una sfida ingegneristica almeno pari a quella della costruzione di una nuova struttura.
La mia proposta, frutto della mia considerazione, è quindi quella di provvedere al rifacimento, con tecniche e disegno nuovo, del pilone mancante e alla ristrutturazione delle altre parti.
Chi volesse condividere tale scelta lo può fare aderendo alla pubblica petizione lanciata dal prof. Antonino Saggio dell’Università Sapienza di Roma sostenuta anche dal sottoscritto.

https://youtube.com/watch?v=02rd29IGY5g%3Frel%3D0
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