Riprendo un testo che ho recentemente pubblicato su AL-BAvaglio, un nuovo blog d’interesse locale di cui sono amministratore, dal titolo “ Eugenio Tibaldi: l’artista albese più importante oggi “. Il tema che questo artista sviluppa nelle sue ricerche, quasi ventennali, riguarda da vicino il mondo dell’architettura, in particolare in un momento in cui sono in atto stravolgimenti politici e sociali che puntano il dito contro le periferie e l’abbandono lasciato alle stesse.
Questo che segue è il testo completo.
“Dal 2000 inizia la mia ricerca che prende vita nell’area periferica a nord di Napoli, provengo da Alba (CN), cittadina di provincia; mi sono trasferito con la motivazione di conoscere e vivere il luogo, a mio avviso, più plastico e mobile d’Italia.
In essa trovo i riflessi di una mutazione silente sia in termini di interpretazione e che reazione alla realtà, una neo cultura in grado di influire e alterare sistemi economico sociali. Le aree periferiche con i loro “non confini”, si prestano ad entrare in relazione con il materiale umano secondo dinamiche “altre” da quelle centrali, dando luogo a soluzioni adattative e di convivenza tra le parti spesso impreviste. Quindi, le periferie, esprimono una condizione culturale che cambia e influenza il modo di vivere di chi le abita ed innesca vere e proprie dinamiche mentali, che riscrivono le regole dell’estetica e della socialità.
Da 15 anni circa studio la periferia ed in particolare le sue risultanze estetiche. Documento e rilevo i passaggi del rapporto fra legalità, economia ed estetica. Annoto i segnali culturali, necessari ed indotti da ciò che il potere impone e che l’economia regola, i codici comunicativi che facilitano lo scambio e le alleanze tra questi tessuti nelle aree periferiche.“
(Tratto dal sito personale dell’artista)
Queste parole tratte dallo statement del suo sito personale rivelano il senso del titolo di questo articolo e ci mostrano quanto sia importante per gli architetti la qualità della sua ricerca. Parliamo di disagio e di periferie, tema oggi attualissimo per la guerra civile tra poveri che si sta consumando sull’onda dell’odio razzista messo in campo da spregiudicati opportunisti della politica.
Eugenio Tibaldi lavora da tempi non sospetti per guadagnare dignità estetica nel mondo estremamente fecondo della marginalità, in questo ricordando le esperienze dell’altro grande artista albese dell’arte informale, Pinot Gallizio. Fondatore nel 1957 dell’Internazionale situazionista, insieme a Guy Debord, Michèle Bernstein, Asger Jorn, Constant, Walter Olmo, Piero Simondo, Elena Verrone, Rulph Rumney, Gallizio non abbandonò mai il tema sociale e la ricerca pittorica mirata alla ridefinizione del perimetro dell’arte, fuori dai recinti del mercato.
Rispetto agli anni dell’informale, l’operare di Tibaldi è molto più presente, estremamente attuale nel modo e nella forma, soprattutto in funzione del linguaggio, che in questo autore non è strumento per descrivere e raccontare ma è l’esito della sua continua e costante ricerca. Lontanissimo dal manierismo di chi si affida all’iconografia certificata dalle esigenze di mercato, che necessitano di un segno evidente e riconoscibile, nel nostro autore il progetto nasce e si sviluppa adattandosi e componendosi secondo un metalinguaggio che non condiziona mai in dettaglio l’esito finale.
Questo aspetto da solo basterebbe a innalzare questo artista ai vertici del mondo dell’arte. Egli ha saputo sottrarsi alla grande seduzione del concetto di “senso” che ha invaso musei e gallerie. In molta dell’arte attuale, vissuta come annuncio, come scena portatrice di senso e non come sostanza in sé, l’evento viene espresso e rappresentato confidando esclusivamente sul significato di quanto e di come l’opera viene esposta, tralasciando ai soli fini calligrafici le modalità di scrittura della scena.
In Tibadi, invece, c’è un rovesciamento perché la scena rappresentata ricava forza emotiva più dalla scrittura che dal significato. Se da un secolo il percorso dell’arte ha inseguito le logiche del teatro, ora, fortunatamente, si inverte la rotta. Molta strada si deve fare, ma è necessario uscire dalle allucinazioni delle “narrazioni”, nelle quali raccontare senso non ha bisogno di una particolare scrittura. Nella politica attuale, per esempio, quelle che vengono chiamate narrazioni, stanno svuotando ogni riferimento al reale, sprofondandoci in un relativismo senza confini destinato a liberare la parte peggiore dell’umanità.
Solo riconquistando la scrittura, che è l’insieme delle tracce del reale, si potranno ricomporre quei valori estetici che, nel mondo occidentale, sono portatori anche di quelli morali.
In un post precedente, relativamente al tema delle periferie romane dove, per esempio a Casal Bruciato, l’estremismo di destra non ha goduto del primato elettorale, scrivevo che la questione fondamentale non stava nella condizione delle periferie, spesso disprezzare dalla comunicazione senza neanche conoscerle.
Questa notizia lo dimostra. Dimostra che il problema è principalmente solo culturale; un problema di appartenenza ad un ideale, che potrebbe essere anche il peggiore, come l’attuale condizione dimostra.
Mussolini, dal momento dell’ascesa alla sua fine, per ottenere un ampio consenso scommise su questo, sul peggio dell’uomo, anche per giustificare i suoi atti peggiori; egli scommise sempre sul lato oscuro delle persone.
Gli elettori della destra attuale sanno di sentirsi rappresentati dentro un ideale malvagio e disumano, ma senza si sentirebbero niente; e non valgono gli inviti del mondo intero, da quello economico a quello culturale a quello religioso, per far loro abbandonare un relitto ideologico tenuto insieme dall’odio.
L’unico strumento che abbiamo per riscattarci da questa miseria è, quindi, solo la cultura.
Ma quale cultura? Quella imposta dai grandi piani urbanistici, magari affidata alle teorie del “rammendo” che piacciono parecchio agli architetti, oppure quella che già esiste in questi luoghi che non conosciamo perché non frequentiamo?
Non conosco un solo grande architetto che abiti in uno di questi quartieri.
Parlo di quelli che pontificano di vocazione sociale dell’architettura mentre progettano edifici dalle forme e dai costi proibitivi o interi quartieri dove ammassare come polli la parte più fragile della popolazione. È indubbio che interi quartieri siano nati male e gestiti peggio. Ma la gente là ci vive, e sono persone di tante qualità che col tempo hanno trovato i loro valori, che hanno saputo trasformare la loro personale “crisi in valore“.
Ma nessuno di noi, se questi luoghi non li frequenta ma li attraversa soltanto, saprà leggere e capire, come succede a tutti gli intellettuali da passeggio che, uno volta rientrati dalla gita domenicale, non trovano di meglio che rompere le palle al mondo coi loro banalissimi sermoni sul patrimonio saccheggiato, l’italianità tradita, la storia ferita. Un atteggiamento infinitamente borghese. Un termine finito nel dimenticatoio dell’intellettualismo italiano che non lo sa più nemmeno interpretare. Senza parole, si sa, i pensieri si perdono.
Quello delle periferie, come dimostra la ricerca di Eugenio Tibaldi, è un mondo altro, tutto da scoprire soprattutto sul piano dell’estetica, fertile di soluzioni immediate e concrete.
Questo mondo ci insegna che la cultura non basta averla ma bisogna farla. Non basta conoscere ma bisogna agire. La cultura si fa con i progetti reali, non con le parole o i propositi. Il tempo delle narrazioni è sprofondato nel relativismo delle opinioni. Occorrono cose vere e reali per riconfinare valori e sentimenti che, altrimenti, si perdono nel tempo di un post.