Disegno di Mordillo
C’è stato un periodo abbastanza lungo della nostra recente storia nel quale il pensiero è stato così debole d’aver perso il senso del ridicolo.
È il periodo che per gli storici va sotto il nome di Postmoderno, che dalla metà degli anni settanta del novecento, periodo in cui il filosofo francese Jean-François Lyotard concepisce e pubblica La condition postmoderne, si trascina fino oltre la fine del secolo.
L’esito finale di questo melodramma, grave ma non serio, lo stiamo vivendo nella situazione politica e morale attuali, che non provano nemmeno la vergogna della propria disumanità.
Quando, nei primi anni ottanta, il concetto di memoria ha cominciato a sostituire quello di storia – storia intesa come sistema coerente di fatti ed azioni teleologicamente determinate ad ottenere un esito ideologico – prima in filosofia e poi in architettura, tale concetto ha iniziato un’opera di distruzione dalle fondamenta dei principi che hanno ispirato il movimento moderno della prima metà del novecento.
Favorire l’esaltazione e il primato di un concetto culturale come la memoria, concetto d’uso e riferimento preminentemente personali che la teoria postmoderna iscrive erroneamente non più ai soli individui ma alla collettività, se inizialmente gratificava una diffusa avversione alla omologazione d’un pensiero unico ed esclusivo (il concetto di verità escludendo per logica ogni tesi contraria o difforme) sul piano filosofico prima, e su quello architettonico dopo, col tempo assisteva inerme alla progressiva decadenza delle idee che sostenevano ogni trasporto dal piano personale della memoria a quello collettivo. Senza i limiti e i paletti della logica rigorosa, che sola può essere strumento di condivisione universale, e per questa ragione trascurata dai movimenti post-ideologici, ogni teoria tende, per natura, come tutte le cose del mondo, al degrado. Tende quindi, esauriti i proclami e gli entusiasmi degli albori, ad alimentarsi da fonti sempre meno nobili ed attendibili, nel nostro caso riferendo l’oggetto della memoria a periodi e situazioni intellettualmente poco interessanti e vagamente convincenti. Quando ognuno si crede legittimamente autorizzato a innalzare la propria esperienza tribale al piano della verità storica , gli esiti collettivi saranno sicuramente mediocri e non veritieri rispetto all’idea di storia quale ci è stata tramandata dagli storici di professione. L’idea di localismo, se da un lato può fornire spunto per una riflessione sul valore della diversità quale motore d’evoluzione, dall’altro, se isolata da un contesto universale e idealizzata come simbolo di appartenenza autonoma ed esclusiva, non può che ridursi ad un malinconico totem a difesa d’una pseudo-identità traballante.
L’esaltazione della memoria produce, quindi e infine, l’irrisione della storia. Diviene parodia tragicomica del potere, incurante delle sofferenze che ha causato nel suo farsi racconto.
Ci sono due aspetti della storia che non andrebbero mai dimenticati. Il primo è quello che la vicenda storica ci riguarda tutti personalmente, per discendenza, perché qualsiasi momento passato che noi possiamo rileggere o immaginare, già in quel tempo viveva un nostro antenato. Il secondo è che, se siamo qui a parlarne, noi siamo sopravvissuti a quei momenti, e quindi, per tal ragione, la narrazione storica non può essere per noi un modello da seguire ma un esempio da evitare. La storia, in quanto realtà deducibile da fatti certificati e da testimonianze autentiche, non può dirci cosa dovremo fare, ma può dirci cosa NON dovremo fare.
Per questo, compito principale degli storici, è proteggere la storia dagli assalti della memoria. Compito che dovrebbe essere anche quello degli architetti, perché l’architettura è arte pubblica, motore di consenso.
Non va mai dimenticato che l’architettura, che l’uomo vive e frequenta, forma le coscienze più d’ogni altra arte. L’attenzione enfatizzata verso qualsiasi edificio delle tradizioni costruttive locali, oltre a pretendere la propria conservazione documentale, ha preteso di determinare i contesti che hanno dato luogo a intere parti urbane, secondo una banale idea di ambientamento che ha confuso l’architettura con la scenografia. Privilegiare i rapporti esterni rispetto alla libera distribuzione degli spazi vissuti, ha riportato l’architettura alla manualistica ottocentesca, costringendola dentro schemi elementari desueti.
Ma il danno principale è stato quello relativo al linguaggio, preteso ed imposto secondo criteri di omologazione e appartenenza. Dialetti che alla fine, dovendo i progetti confrontarsi con le nuove tecnologie costruttive ed le nuove necessità abitative, sono degenerati nel più farsesco dei gramelot.
L’architettura deve invece abituarci alla diversità, alle differenze, alla tolleranza (che sarà anche una brutta parola ma, in democrazia, è indispensabile). Il contrario del rigore e dell’intolleranza verso la diversità che in questi molti anni hanno riempito la testa e formato le coscienze di quei funzionari che governano il destino urbanistico nazionale.
Hanno sperato di salvare il paesaggio ambientale, ma si son giocati quello umano.
Alessandro Barbero | “Storia e memoria”
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DEL PIEMONTE ORIENTALE DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI LETTERE, FILOSOFIA, LINGUE