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Storia e Critica

Bruno Zevi su Lara-Vinca Masini su Riccardo Morandi

Vi ripropongo questo pezzo scritto da Bruno Zevi nel 1974 su Cronache di Architettura, rubrica tenuta dal 1955 sul settimanale “L’Espresso”.
Zevi vi cita un libro di Lara-Vinca Masini sulle opere di Riccardo Morandi. Mi sembra doveroso riproporre questi tre maestri, ai quali la mia formazione e la mia esperienza professionale devono parecchio, in un momento nel quale la memoria del loro tempo migliore sembra essere infamata dalla volgarità della cronaca. In particolare, questo vituperio avviene senza che coloro che oggi prendono le prime pagine dei giornali e dei media nazionali muovano un solo dito, non dico per rievocarne i meriti, ma almeno per difenderne il prestigio. Dopo il crollo del ponte di Genova, su Morandi abbiamo udito le peggiori fandonie, per non parlare della volgarità e ignoranza degli innumerevoli commenti apparsi sui vari social network; su Lara-Vinca Masini abbiam dovuto aprire una sottoscrizione perché fosse riconosciuta la sua importanza culturale in una recente vicenda che la riguardava. Su Zevi che dire? Citarlo e riconoscerlo per maestro di pensiero produce sempre rispetto, questo è vero, ma nel contempo, se lo si fa, ci si trova subito guardati come in un giardino zoologico si guardavano le fiere ridotte in cattività.
Bruno Zevi, in un tempo molto recente, è stato un ingrediente fondamentale del nostro mondo intellettuale e professionale, perché molto indigesto nel ricco menù della retorica nazional popolare. Oggi egli ha perso molti degli enzimi che lo affiancavano nella benefica azione di sprovincializzare l’architettura italiana. Sono rimasti pochi testimoni, e io ho la presunzione di ritenermi tra questi. Per questa ragione rivendico l’attualità del suo pensiero, l’eleganza della sua scrittura e la chiarezza del suo messaggio.


Strutture-paesaggio di Riccardo Morandi
Ingegnere tra minimal e Land Art

Non è un ingegnere che sfugga al destino di restare ai margini dell’architettura; ma questa, avendo consumato il proprio linguaggio fino a raggiungere il grado zero, pone all’avanguardia gli «outsiders».
Lo si è constatato sin dal 1957, a proposito del cinema Maestoso costruito nello squallido contesto della via Appia Nuova a Roma. La pop-art era ancora allo stadio embrionale, e Robert Venturi non bruciava incenso al messaggio estetico di Las Vegas; eppure, risultava evidente che il «cattivo gusto» di Riccardo Morandi si inseriva a perfezione nel kitsch di un’opprimente periferia.
Accadde lo stesso per la centrale termoelettrica di Santa Barbara a Castelnuovo dei Sabbioni, presso Arezzo: il termine «Brutalism», appena coniato dagli inglesi, sembrò attagliarsi esattamente a quel bricolage di turbogruppi, condensatori, ciminiere, nastri trasportatori e torri di refrigerazione. Nella misura in cui il linguaggio architettonico subiva un processo di destrutturazione, gli emarginati e i disadattati passavano in prima linea.

«La mia in complesso è stata una vita difficile, sempre in polemica sia con gli ingegneri di mentalità più conservativa ed accademica, sia con gli architetti, specialmente quelli della presunzione formale», scrive Morandi. Ma è anche una vita molto fortunata. Ha cominciato la professione come semplice «calcolatore» di ingabbiature in cemento armato per edifici di abitazione, agli inizi degli anni trenta.
Sviluppando genialmente la tecnica del precompresso, ha poi acquistato fama internazionale. Nel 1962, completato il colossale ponte attraverso la laguna di Maracaibo in Venezuela, presentava la sua opera in una pregevole monografia curata da Giorgio Boaga e Benito Boni. Ora ne è uscita un’altra, in cui Lara-Vinca Masini rapporta i lavori di Morandi alle esperienze della «minimal art» e a quelle della «land-art», postulando una serie di affinità con Les Levin, Ronald Bladen, Mathias Goeritz, Michael Steiner, naturalmente Christo e Dennis Oppenheim, ed evocando persino Pollock, Noland, Fontana e Vedova. Il libro ospita testimonianze di Pio Montesi e Leonardo Ricci: forse a nessun ingegnere è stato tributato un simile omaggio.

Il tono apologetico e quasi trionfalistico nuoce però alla comprensione dell’attività morandiana, il cui bilancio è talmente positivo da tollerare una disamina che ne metta in rilievo anche le ombre, o quantomeno ne circoscriva i limiti. Possiamo benissimo rifiutare le distinzioni tra architettura, ingegneria e urbanistica, anzi è spesso opportuno. Permane tuttavia il problema di qualificare due tipi di interventi: la configurazione di spazi racchiusi, e l’innesto di elementi plastici, privi di cavità fruibili, nel paesaggio urbano e territoriale.

Per quanto attiene al primo tema, Morandi può vantare un capolavoro: il padiglione sotterraneo del salone dell’automobile a Torino Esposizioni del 1958: « tutto un gioco di equilibri che sembrano sfidare le leggi statiche, eluderle; operando su di esse lo stesso superamento compiuto dalla condizione delle geometrie non euclidee in rapporto alla geometria classica. È come se la trasmissione continua delle forze si svolgesse, di volta in volta, affidandosi a ipotesi percettive, intuitive, la cui verifica rimanda dall’una all’altra in un ritmo dinamico veloce e scattante, trasformando in un susseguirsi di gesti intenzionati la visione globale dell’oggetto che divensa, così, nodo strutturale unitario; sintesi e ricarica continua di gesti». Esito eccezionale, dovuto alla capacità di animare un vuoto sconfiggendone l’impianto bilanciato, inerte, tradizionale. Va però notato che si tratta di un unicum, ed inoltre che a questo ambiente, appunto ipogeico, non corrisponde un volume.
Le altre architetture di Morandi, dal garage Zeppieri di Frosinone alle aviorimesse Alitalia di Fiumicino, dalla centrale termoelettrica di Livorno al progetto del grattacielo Peugeot a Buenos Aires, non offrono spazi interni significativi, né involucri adeguati; la «scatolla» resta classicista poiché l’impeto meraviglioso e talora feroce delle strutture non riesce a coinvolgerla.

Sotto il profilo del dialogo con l’intorno, poiché si attua per dissonanze e contrasti, i risultati sono di regola convincenti: «l’inserimento dell’oggetto di Morandi nel paesaggio si definisce, per così dire, in maniera automatica, in quanto si tratta sempre, da parte sua, di riprodurre un oggetto-fusione (ponte, viadotto, ecc…) e non un oggetto che sia intenzionalmente oggetto-architettura». Più acuta questa osservazione: «il nuovo oggetto-funzione viene a sostituire, rovesciandone le premesse contenutistiche, quello che, nel paesaggio urbano antico, era rappresentato dal monumento inteso come punto fermo, quasi un arresto del tempo, come segnale che, mentre prolunga indefinitivamente, attribuendole un crisma di eternità, la durata del momento esaltato dal monumento stesso, ne vanifica la dinamica reale, legata alla funzione specifica che si consuma nell’attualità. Le opere di morandi, rovesciando questo concetto statico del monumento, del porsi come oggetto-funzione, e in più come funzione dinamica, infrastrutturale, cioè come inter-funzione dell’atto stesso del suo farsi, come anti-eternità, ne assumono, formalmente, la simbolicità, fino a divenire, visivamente, una sorta di trasposizione ideale, all’insegna della dinamica temporale, del monumento stesso». Giusto, ma siamo ancora nel clima dell’ideologia macchinista, degli inni alla monumentalità dell’utilitario: un discorso applicabile a tutte le sopraelevate, basti pensare all’ingresso delle «freeways» di Los angeles, ai ponti e viadotti di ogni genere.

«Gli autentici architetti della nostra epoca sono gli ingegneri», proclamavano i manifesti dell’avanguardia, un secolo fa. Oggi siamo più perplessi e scaltriti, sicché converrebbe estendere l’indagine di Lara-Vinca Masini con una lettura delle città e dei territori che valuti l’incidenza dialettica dei segni di Morandi.

(Bruno Zevi – Cronache di architettura n. 1026 – 1974)

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