Il 2 gennaio 1965 il Palazzo Steripinto di Sciacca – residenza nobiliare risalente alla fine del XV secolo – fu citato in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera, a firma di Cesare Brandi, uno dei più importanti studiosi del restauro, fondatore dell’Istituto Centrale del Restauro (1939), storico, critico e docente universitario (in quegli anni insegnava all’Università di Palermo), dunque personaggio certamente di fama internazionale. L’articolo trattava dell’addizione di un corpo edilizio destinato ad abitazione ed uffici di supporto alla Chiesa Madre. Definendolo quale un vero e proprio “scempio”, il professore si augurava che Sciacca potesse comunque conservare la sua connotazione quale “piccola oasi dell’anima, una gentile epifania del bello, di cui lo Steripinto è il fulcro assoluto”. Profondamente colpito dalla bellezza della cittadina, si augurava che tutti gli scempi allora in atto (ne citava altri, oltre a quello sulla Matrice) potessero essere gli ultimi, risparmiando soprattutto proprio lo Steripinto, che definiva “il più grazioso monumento di Sciacca, un palazzetto a punta di diamante come il palazzo dei Diamanti di Ferrara[…].Codesto gioiellino, vera Cà d’oro saccense, fu restaurato in modo offensivo con cemento e con bozze rimesse di una pietra d’altro colore […]”. Per capire appieno la portata della definizione data da Brandi allo Steripinto, basti ricordare che la “Cà d’Oro” è uno degli edifici simbolo più famosi di Venezia, noto in tutto il mondo.
Nel maggio del 2002 fu Marco Dezzi Bardeschi a volere visitare lo Steripinto, quantomeno nella sua conformazione esterna. Si trattava di uno tra i più importanti studiosi ed operatori del restauro a livello internazionale, fondatore del Dipartimento di restauro e conservazione architettonica del Politecnico di Milano, organo da cui ha avuto origine l’approccio “conservativo” all’opera architettonica/fabbrica, teso a confutare tutti gli interventi di restauro arbitrario. Era a Sciacca per un convegno organizzato da AntiTheSi promosso e coordinato da Sandro Lazier e da chi scrive. Fiorentino, di assoluta schiettezza, di una preparazione teorica, tecnica e pratica di altissimi livelli, conosciuto internazionalmente, innumerevoli sono stati i suoi interventi di “restauro conservativo” sui monumenti – e non solo – di mezza Italia. Anche l’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori di Agrigento si avvaleva – meritoriamente – per articoli pubblicati sul giornale da esso edito, della sua preziosa collaborazione. Guardando con grande interesse lo Steripinto, mi disse pressappoco così: “… architettura eccellente…soprattutto per le contaminazioni di linguaggi che la differenziano dal Palazzo dei Diamanti di Ferrara e da Palazzo Sanseverino di Napoli. Paolo…, osservando l’intervento di restauro che hanno fatto sull’edificio dove abbiamo fatto il convegno (Ex Convento di San Francesco – N.d.A.) speriamo che non mettano mai mano allo Steripinto…, magari per ripristinare le bugne mancanti…Sarebbe uno scempio. Qui va attuato solo un intervento conservativo”. Con Dezzi Bardeschi ho avuto la fortuna di potere condividere venti anni di commissioni di laurea al Politecnico di Milano, di cui egli era presidente, potendo imparare e conoscere appieno il significato che egli dava alla “Conservazione architettonica”, il cui fondamento sta nel reputare la fabbrica quale “documento” della storia, che deve assolutamente esprimere l’autenticità dell’opera, rintracciabile esclusivamente nei suoi componenti materici così come sono arrivati al momento dell’intervento conservativo, compresa la patina del tempo. Qualsiasi ripristino di parti mancanti non è altro che la falsificazione del documento.
Nel 2017 – su Risoluto.it – scrissi di “Conservazione e riuso” riguardo le emergenze architettoniche monumentali di Sciacca, la maggior parte delle quali, al momento del dovervi intervenire per restaurarle, ha subito vere e proprie falsificazioni del suo essere “testo”, “documento storico”. Prendeva il sopravvento la pretesa del restauratore di ripristinarne anche solo parzialmente l’integrità delle parti. Lo scrissi allora: se mai, per ripristinare l’integrità dell’opera(intesa quale il suo stato finale al momento della conclusione dell’edificazione), le bugne mancanti nel Palazzo Steripinto fossero state integrate camuffandole con le originali, si sarebbe creato un falso storico e materico. Di più: un falso culturale.
Bene, anzi, male: con l’intervento appena concluso le bugne sono state integrate. E poco vale che non lo siano state tutte, lasciandone alcune allo stato di erosione – concausa degli agenti atmosferici e di quelli chimici – a testimonianza dell’azione della storia. Ma è una falsa testimonianza visto che, addirittura, ce ne sono alcune che sono state parzialmente reintegrate, creando un ibrido senza senso. Il restauratore non ha dimostrato coraggio: ha attuato un intervento che arreca ambiguità assoluta alla fabbrica. In sintesi, lo Steripinto così ridotto non rappresenta ciò che dovrebbe, e cioè il suo essere “documento della storia”, bensì un campionario di bugne: quelle originali e pressocché integre; quelle originali e parzialmente erose; quelle originali quasi interamente erose. E poi ancora: quelle false, perché ricostruite in toto; quelle false a metà, perché sono state integrate nella loro conformazione originaria alcune di quelle parzialmente erose. E come se non basasse, si è pensato bene di ricostruire – sempre parzialmente – anche la sagomatura del portale d’ingesso. La necessità era semplicemente quella di fermare il degrado senza ambigue azioni di ripristino formale, men che meno fatte per analogia. Ripetiamo il parere degli autorevoli studiosi già citati: questa è stata la peggiore delle modalità nell’ambito del restauro architettonico.
Paolo G.L. Ferrara