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Storie di un’architettura sommersa: Riflessioni sulla mostra Buone nuove. Donne in architettura al Maxxi di Roma

di Giulia Cervini

“Siamo marea”. Sembra risuonare questo slogan femminista appena si varca la soglia di ingresso alla Galleria 2 del Maxxi di Roma, dove è in corso, fino all’11 settembre prossimo, la mostra Buone nuove. Donne in architettura a cura di Pippo Ciorra, Elena Motisi ed Elena Tinacci.

La mostra assume infatti il tono di una scena corale al femminile, dove il ruolo di protagonista scompare in favore del gran numero di voci eterogenee che si mescolano armoniosamente per un unico, necessario, appello. L’appello è quello di ottantacinque donne impegnate, a vario titolo, nel mondo dell’architettura, che hanno segnato, nel corso del Novecento e degli anni Duemila, il consolidarsi della pratica professionale a firma femminile. 

L’obiettivo della mostra non è solo quello di fotografare la scena contemporanea dell’architettura analizzata, teorizzata e realizzata da donne, ma anche quello di ripercorrere alcuni dei momenti storici più rilevanti nell’evoluzione della cultura architettonica. È innegabile, infatti, che i nomi dei “grandi maestri” abbiano troppo spesso fatto ombra sulle donne che hanno lavorato a loro fianco (Lilly Reich con Mies van der Rohe, Marion Mahony Griffin con Frank Lloyd Wright, Denise Scott Brown, la compagna di Robert Venturi). Altro obiettivo della mostra è centrato sulle donne che, negli stessi anni, sono state autrici di opere importanti, rimaste tuttavia ai margini della notorietà. Solo per fare qualche nome: Minnette de Silva, prima architetta modernista dello Sri Lanka e prima asiatica ad entrare nel Royal Institute of British Architects; Norma Merrick Sklarek, prima afroamericana ad avere accesso alla professione a New York nel 1954; Vittoria Calzolari, progettista romana – il più noto dei suoi lavori è il piano per il Parco dell’Appia Antica – che ha contribuito in maniera decisiva al consolidamento di una via italiana del paesaggismo e dell’urban design.

Nonostante sia dedicato ampio spazio anche alle “star” – Odile Decq, Elizabeth Diller, Zaha Hadid, Benedetta Tagliabue, Kazuyo Sejima di Sanaa, Yvonne Farrell e Shelley Mc-Namara di Grafton Architects, il merito di questa mostra è (prima di altri) quello di costruire una narrazione del sommerso, restituendo con grande efficacia la consistenza del lavoro delle donne architetto, rimasto occultato dallo stereotipo del mestiere maschile. A partire dal 1890, quando, per la prima volta nel mondo, una donna si laurea in architettura (Signe Hornborg ad Helsinki), dovranno passare decine e decine di anni perché alle donne sia data la possibilità di firmare la progettazione di opere complesse o di essere menzionate nei resoconti del giornalismo di settore.

Anni Albers al telaio

A tal proposito, Frida Escobedo, talentuosa architetta di Città del Messico, si presenta all’interno di questa esposizione con un’opera intitolata Unseen. Mi sembra innanzitutto interessante sottolineare che Escobedo, nonostante la florida professione –  tra le opere più importanti: il padiglione estivo, nei Kensington Gardens, della Serpentine Gallery; la Plaza Civica di Lisbona; la ristrutturazione de La Tallera a Cuernavaca; il padiglione nel Museo Experimental El Eco di Città del Messico – rinuncia a parlare dei suoi lavori per riportare alla memoria la figura di Anni Albers, una delle più importanti artiste tessili del XX secolo e una delle pochissime donne del Bauhaus; un gesto da interpretare forse come un monito: ossia che, in nome di una causa collettiva, il primo passo da compiere è rinunciare all’autocelebrazione e che – come ribadito dall’organizzazione della mostra –, per costruire un futuro migliore per le donne, è necessario ripercorrere il passato e costruirne un altro racconto, finalmente equo e plurale.

Anni Albers fu l’unica donna ad essere invitata a realizzare un’opera all’interno del Camino Real Polanco, un grande hotel di Città del Messico progettato dall’architetto messicano Ricardo Legorreta e inaugurato per i Giochi Olimpici nel 1968. Tra gli autori delle opere d’arte che punteggiano gli interni dell’hotel, Anni Albers non è soltanto l’unica donna, ma anche l’unica artista che rispose alla richiesta di adornare una delle pareti dell’albergo con la realizzazione di un arazzo, piuttosto che con un dipinto murale. 

Frida Escobedo, il tappeto in mostra per Unseen

L’opera della progettista messicana inserita all’interno della mostra Buone Nuove consiste in una reinterpretazione del tappeto originale – Escobedo introduce volontariamente delle variazioni rispetto all’arazzo di Anni Albers – esposta a dialogo con un disegno autentico dell’artista tedesca. L’installazione proposta da Escobedo propone così una riflessione sul rapporto tra identità e differenziazione, tra standardizzazione, produzione industriale e artigianalità, tra “messicanità” e stile internazionale. Ma al contempo, come esplicitato all’interno della narrazione video che media il dialogo tra il dipinto e l’arazzo, Escobedo riporta l’attenzione sul rapporto tra arte tessile e mondo femminile nel filmato si sottolinea, infatti, sottolinea, infatti, come l’arte tessile, in epoca moderna – con tutta evidenza in quanto pratica prevalentemente femminile – fu tenuta ai margini della critica e mai ritenuta alla pari di altre forme d’arte (quando arrivò al Bauhaus, Anni Albers, come la maggior parte delle donne, fu indirizzata verso la tessitura e tenuta fuori da quelle che Gropius chiamava “le aree più pesanti del mestiere”).

Si tratterebbe dunque di riportare alla luce, non solo nomi di donne dimenticate, ma intere pratiche, forme d’arte, mestieri sommersi, perché rimasti fuori dalla prerogativa maschile. Inseguendo questa traiettoria – suggerita dall’installazione di Frida Escobedo – il tema della parità di genere assume un respiro più ampio e complesso, capace forse di rinnovare lo sguardo sull’arte che ci ha preceduto e sul progresso delle pratiche attualmente in atto.

Sull’invito ad andare oltre la questione dell’autorialità, si sofferma Beatriz Colomina, docente di storia dell’architettura alla Princeton University School of Architecture, in una delle videointerviste presentate nella sezione “Narrazioni” della mostra. La studiosa inserisce la questione di genere in una cornice più estesa, riguardante il settore della produzione architettonica: “L’architettura è di fatto una pratica collaborativa, ma per qualche motivo si continua a privilegiare il punto di vista per cui essa è il risultato degli sforzi di una singola figura eroica”. In una ricerca intitolata With or without you. The ghosts of modern architecture – presentata all’interno del progetto “Modern Women” proposto dal Moma – Beatriz Colomina dimostra come le donne sono sempre state presenti e attive nel campo dell’architettura ma, sempre e sistematicamente, ignorate. Tuttavia, pur restando connotato da una sua specificità, il problema della discriminazione femminile consente alla studiosa di porre una riflessione più generale: in un sistema in cui l’architettura viene narrata come il prodotto di una “singola figura eroica”, a essere sommerso è il lavoro, la competenza, la creatività di molte personalità coinvolte all’interno di un processo tanto complesso da rendere difficile persino l’individuazione di un’unica regia.

Operaie tessili, Finlandia 1951

Al termine della visita della mostra Buone nuove. Donne in architettura, una domanda sembra allora porsi con una certa limpidezza: qual è e quale dovrebbe essere – in progetti scientifici, curatoriali e culturali futuri – l’obiettivo di riflessioni sul sommerso femminile dell’architettura? Non certo quello di produrre una nuova narrazione “al femminile” ricalcando i canoni del discorso consolidato, che ha estromesso le donne dalla storia e dalla pratica dell’architettura. Piuttosto, si tratta di lavorare alla decostruzione della figura dell’eroe/eroina per approdare al riconoscimento del lavoro architettonico come scena corale, plurale ed eterogenea. In altre parole, l’abbattimento delle disparità di genere e la riscoperta delle figure oscurate dalla storia dell’architettura sono strettamente collegate al ridimensionamento del mito dell’autore o quantomeno dell’idea di “star”. Sembrano questi i primi passi di una rivoluzione culturale capace di interrogare e mettere in discussione i processi sociali ed economici che guidano il compimento di un’opera di architettura e, forse, anche il carattere muscolare e iconico verso cui tende molta architettura contemporanea. 

Giulia Cervini

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