“E il cadavere finisce per cadere, nella fossa, descrivendo pur sempre una curva indescrivibilmente dolce…”
Franz Kafka, Nella colonia penale
Nell’architettura di Carlo Scarpa è custodito, in vitro, il dramma dell’esporre e tutta la sua ambiguità.
Ogni opera d’arte è concepita per l’ombra, ne ha desiderio e vocazione; vuole rimanere celata, lasciarsi sfiorare solo da un raggio di luna che la riveli parzialmente e con parsimonia estrema.
Tanto più si vota al silenzio quanto più certi suoi fortuiti artefici proclamano di volere esprimere qualcosa (o, peggio ancora, “esprimersi”).
Esporla è la violenza più atroce cui la si possa sottoporre e il museo è la raffinata camera di tortura che l’uomo ha concepito per praticare in tutta comodità, e spesso a pagamento, lo stupro.
L’opera di Scarpa comprende, ufficialmente, molti musei ma questo non dice ancora l’intera verità sulla sua vera consistenza museale.
Non c’è una sola sua opera che non manifesti tale concezione museografica: dalle case alle banche, dai negozi alle chiese, in lui tutto è Museo.
Ma il museo tradisce per statuto il delicato nesso tra l’epifania dell’opera e l’attimo in cui lo sguardo, più che coglierla, ne è colto.
Scarpa istituzionalizza quell’attimo e lo mostra in tutto il suo splendore.
Per farlo, deve però immobilizzarlo in immagine e cristallizzare lo sguardo che vi assiste. Perciò tutta la sua opera appare immersa in una specie di trance espositivo.
Il tenue, tortuoso e talvolta accidentato, percorso che conduce allo sguardo è bonificato, rettificato.
Qualsiasi elemento dell’architettura, qualunque ne sia la funzione, viene uniformemente illuminato ed “esposto”.
La stessa luce si proietta su chi assiste e lo confina in una enclave fotografica mutandolo in obiettivo puntato sul soggetto e fissato su un treppiede.
Per questo l’architettura di Scarpa è sempre fotogenica; reclama la fotografia, la pretende e non si fa mai cogliere impreparata dallo scatto.
Sorride sempre anche se il suo sorriso talvolta è quello, cadaverico, dei fotografati.
Perché è concepita in un orizzonte museale e nasce già come museo di se stessa, sia quando, effettivamente, “espone”, sia quando, per contratto, non sarebbe tenuta a farlo.
L’elenco, l’eterogeneità dei componenti, la predilezione per i giunti, la campionatura di materiali disparati e di elementi compositi sono altrettante testimonianze della sua vocazione espositiva e la cornice ne diviene modalità di recinzione, definizione di un catalogo che in sua assenza apparirebbe confusionario, un coacervo di oggetti inassimilabili; nello stesso tempo si fa “maniera”, gesto di “urbanitas” con cui l’opera viene offerta allo sguardo.
Per tale ragione nessun materiale, neppure il più umile ed economico, si esime, qui, dal preziosismo. Esso trascende le sue caratteristiche chimico-molecolari nel senso di una propensione quantistica (non misurabile sperimentalmente) all’esporsi.
Fa tutt’uno col gesto del mostrarsi.
Sta qui, al di là della funzione contingente alla quale deve piegarsi, la profonda, vera “Utilitas” di ogni edificio scarpiano: portare inciso la parola “Museo” in ogni sua fibra, come il condannato della colonia penale Kafkiana recava incisa sulla pelle la sua condanna.
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(Ugo Rosa – 2/8/2018)
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