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Storia e Critica

Firenze – Zevi Maestro di domani

Il titolo di questa commemorazione è Zevi, un maestro per il domani. Personalmente ho paura di questo titolo. Perché ho paura della parola maestro.
Soprattutto se così si intende colui che inizia una scuola.
Zevi le odiava e fece di tutto per non averne una sua.
Certo, in un certo senso Zevi fu un maestro. Direi suo malgrado.
Credo che avrebbe accettato questa parola solo se usata anti-edipicamente. Cioè come un riferimento conflittuale, a una figura odiata oltre che amata, da superare, quindi da uccidere simbolicamente al più presto. Un riferimento morale che spinge in una direzione altra e imprevedibile.
Come, per esempio accadde a lui con l’eredità di Croce e De Sanctis, i suoi maestri ideali. Che si guardava bene da osannare o da venerare. Si pensi ai tanti motivi di divergenza concettuale. E anche al fatto, che Zevi raccontava con orgoglio, di non aver neanche voluto conoscere di persona Croce, nel momento in cui gli se ne presentò l’occasione. “Conosco i suoi libri, disse, mi basta ”.
Zevi aveva, inoltre, paura delle commemorazioni dei discepoli. Sapeva che alla morte di Michelangelo l’accademia lo aveva incensato per subito tradirlo. Sapeva che dietro al feretro del Borromini, affilavano le armi i suoi nemici.
Non facciamo quindi gli orfani di Zevi ma piuttosto cerchiamo di capirne l’eredità, per subito reinvestirla in nuove linee di ricerca.
Cerchiamo allora di vederlo nella sua luce, storica. Di un inconsueto maestro che faceva di tutto per deludere i suoi aspiranti allievi e anche per farsi nemici.
Il Professore aveva infatti un carattere difficilissimo. Spigoloso e intransigente. Basta pensare che ebbe scontri violenti, alcuni sino quasi al limite dell’insulto, con numerosi suoi ex allievi e anche con persone che al suo insegnamento, in qualche modo, si richiamavano.
Alcuni di questi scontri erano giustificati dall’opportunismo politico dei sedicenti discepoli, dal loro pallido, anzi sbiadito, profilo morale. Chiunque fosse stato una persona integra, fuori dai giochi, avrebbe dovuto richiamare tali personaggi che spadroneggiavano nelle accademie e nei centri di potere. Zevi lo fece, anche accettando l’esilio –perché di un esilio si trattò- nel 1979 con le sue dimissioni dall’Università.
L’intransigenza di Zevi non si limitava però a semplici richiami al comportamento amorale e opportunista delle persone. Ma anche ad aspetti, che potremmo definire afferenti il linguaggio delle forme, rispetto ai quali il buon senso avrebbe suggerito una posizione meno dura.
Penso per esempio alle stroncature di personaggi importanti della cultura architettonica fatte al fine di stigmatizzare i loro edifici bloccati nella articolazione volumetrica, soggetti a configurazioni simmetriche, concepiti con disegni monumentali, disegnati con ammiccamenti all’architettura classica o del passato.
Tanto ripetute e ossessive erano le sue prese di posizione –pubblicò anche un libro dal titolo emblematico: sterzate architettoniche- che diventavano quasi controproducenti. Non conosco alcun docente che, risentito dei suoi attacchi, non abbia preso in giro Zevi per l’ossessione contro il classicismo e la simmetria o che non lo abbia considerato un po’ fuori di testa quando scandiva, con voce un po’ nasale, le sette invarianti del linguaggio moderno del’architettura, rifacendosi a una carta del Machu Piccu che, avrebbe dovuto avere il valore della Carta di Atene, ma che molti pensano sia stato Zevi l’unico a redigere e a conoscere.
Perché tanta intransigenza formale, da parte di una persona che aveva anche aspetti di grande umanità e affabilità?
L’unica risposta che sono riuscito a darmi consiste nell’equivalenza, per Zevi indubitabile, tra architettura e linguaggio.
Progettare forme nello spazio equivale per Zevi a mettere nero su bianco il proprio pensiero, scrivere la propria visione del mondo, dichiarare la propria utopia.
E che così doveva essere lo testimonia anche la sua ultima, o quasi ultima, raccolta di scritti dal titolo “leggere, scrivere, parlare architettura ” in cui aveva messo insieme alcuni vecchi saggi ribattezzandoli appunto con questo nuovo titolo per indicare una direzione di ricerca alla quale non è mai venuto meno.
Se le forme sono parole, le parole non possono essere adoperate scioccamente, prestate a ideologie autoritarie. Non è lecito sprecarle, comporle male, utilizzarle a sproposito. Le parole, diceva qualcuno, sono pietre. Per Zevi, scampato all’Olocausto, poi militante di Giustizia e Libertà, infine, generoso presidente, e non a caso, del Partito Radicale, queste pietre servono a costruire il nostro futuro. Anche una simmetria, anche una armonia classicista denunciano un tradimento. Sono parole disperse al vento, vendute a una causa non giusta. Pietre che non liberano.
Solo un altro critico, Edoardo Persico, peraltro da Zevi amatissimo, aveva avuto tanto coraggio nel legare il messaggio civile dell’architettura con le forme dello spazio. Lo aveva fatto in una conferenza memorabile dichiarando l’architettura “sostanza di cose sperate ”, manifestando così l’inscindibilità del nesso tra forme e liberazione, tra spazio e utopia, tra concretezza del presente e immagine di un futuro sperato, voluto, agognato.
Se le parole sono il tramite dei valori di chi le pronuncia, vale anche il contrario e cioè che le persone sono coloro che plasmano le parole. E chi non ha valori, non può, se non ipocritamente, inventare parole che indirizzano al cambiamento.
Ecco un motivo che forse ci spiega il perché Zevi dubitasse che certi architetti, di flaccida tempra morale, potessero produrre buone architetture. E’ noto, per esempio, che il Professore avesse in scarso conto Moretti, nonostante l’oggettiva abilità di quest’ultimo a gestire le forme; e disprezzava Piliph Johnson, nonostante la straordinaria bravura del funambolico personaggio a confrontarsi con numerosi stili, alcuni dei quali, penso al decostruttivismo, ampiamente apprezzati dal Professore.
E anche ci spiega, viceversa, l’interesse critico di Zevi per architetti della scena internazionale mediocri ma caratterizzati da una forte componente etica. O l’eccessiva attenzione, sulle pagine dell’Architettura Cronaca e Storia, per professionisti, a volte di mezza tacca, impegnati sul fronte delle realtà locali.
Meglio ascoltare, sembrava dire, una persona semplice nel sostenere buone cause che un intellettuale radical chic che parla solo per il gusto di sentirsi. Meglio una prosa schietta ma rozza che un latinorum modaiolo e deficiente.
Bene, credo che questa sia una grossa lezione di un maestro scomodo, sulla quale, in questo tempo di esasperato star system, è bene riflettere.




(Luigi Prestinenza Puglisi – 29/10/2001)

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