Gehry abbandona Modena. Tanti motivi, nessuno ben chiaro. Dal quotidiano La Stampa del 29.dicembre 2000 arriva la motivazione del divorzio: adulterio dell’Italia nei confronti della “tradizione”. Avvocati della parte lesa (“tradizione”) Gae Aulenti e Vittorio Gregotti.
Adesso è tutto chiaro. Abbiamo capito i motivi che impediscono all’Italia di potersi inserire nel dibattito internazionale contemporaneo con architetture che abbiano contenuti essenzialmente diversi dalla “tradizione”.
Gae Aulenti e Vittorio Gregotti devono essere ringraziati per averci illuminato con la loro intervista. In effetti, si tratta dei due più importanti architetti della “tradizione”, dunque la loro voce non può che essere autorevole.
Entrambi concordano nell’affermare che l’Italia ha un tale patrimonio architettonico che è quasi impossibile pensare a nuove architetture. Si riferiscono all’abbandono di Gehry per il progetto di Modena, progetto che, secondo la Aulenti “spaventa” e che, secondo Gregotti “era essenzialmente di scultura, non era del tutto necessario e si trovava in un’area dove il nuovo è difficile da unire all’antico”.
Dimenticavo: la Aulenti afferma che Gehry sia stato chiamato a Modena perché architetto “di moda”.
Scusi Signora Aulenti, che cosa è un progetto che “spaventa”? Forse qualcosa che non ricalca pedantemente canoni prestabiliti? Forse qualcosa che disturba la continuità dell’antico? O forse qualcosa che metterebbe in risalto il fatto che i tempi cambiano, che le società cambiano, che la città cambia?
Analizzo la Sua Piazza Cadorna, a Milano, e mi accorgo che la domanda avrei potuto evitarla.
Si trasforma Piazza Cadorna, si fissa un punto di vista prospettico che, per sua natura, essa non aveva, non voleva. I rapporti spaziali tra gli edifici escludevano ogni tipo di riferimento di un punto preciso d’individuazione del luogo: non vi arrivavano vie ma vi passavano, convergendovi. La continuità di flusso si rispecchiava in bidimensione (piano stradale), tridimensione (altezze e tipologie degli edifici) ed in quadridimensione (rapporto spaziale instaurato dalle volumetrie del costruito, intriso di continue soluzioni di continuità).
Forse non si è considerato tutto ciò, identificando un tale luogo alla stregua di una qualsiasi piazza ottocentesca, focalizzando privilegiati punti di vista.
Oggetto estraneo alla natura di Piazza Cadorna, il Suo costruito parla in lingua accademica, componendo le parole, e con esse le frasi, seguendo una perfetta sintassi da codice prestabilito. La sequenza di pensiline a timpano triangolare ha ampliato il corpo edificato del precedente edificio delle Ferrovie Nord, arrivando ad occupare gran parte dello spazio bidimensionale preesistente. Il legame lo si rintraccia anche attraverso la continuità che le pensiline hanno con la nuova facciata dell’ edificio FN.
Intervento accademico, inconfutabilmente dimostrabile proprio attraverso il carattere che esso ha assunto in rapporto all’esistente: non vi è stato incontro sinergico con le tridimensionalità esistenti, è bastato rivestirle, ma solo in facciata; dunque, considerazione dell’architettura quale prospetto, in altre parole superficie bidimensionale. E’ risaputo lo scherno che da sempre aveva accompagnato l’edificio delle Ferrovie Nord Milano, considerato deturpante il contesto esistente con riferimento alla sua mancanza di riferimenti stilistici affini ad esso.
Si sono sprecate decine e decine di tesi di laurea, centinaia di proposte progettuali per esami universitari: quell’edificio andava eliminato, ritoccato, nascosto, a scelta.
Si è scelto di nasconderlo, o meglio, si è scelto di nasconderne i materiali di finitura perché la scenografia che lo copre ricalca perfettamente quanto vi è dietro, taglio delle finestre compreso.
Dunque, dove sta il problema? Se è vero che ne sono state ricalcate le scansioni volumetriche e le finestrature, sembrerebbe che il problema siae esclusivamente nei materiali usati e non nell’essere figlio di un’impostazione tematica prettamente funzionalista, ove la simmetria e la regolarità erano comunque – e nonostante gli sforzi di Le Corbusier di fare capire il vero senso del linguaggio funzionalista – presenti quasi a dare continuità alla visione prospettica rinascimentale.
Rivisitazione storica: dura da trenta e più anni ma si riduce nel dare forme archetipe alle forme pure, in un processo di trasformazione che mira eclusivamente a ridare il phatos della tradizione italica fatta di timpani, colonne, frontoni, capitelli. Dimenticando che i suddetti elementi non sono importanti di per sé ma è fondamentale il modo spaziale in cui li si lavora (Borromini docet), è proprio la continuità della ricerca spaziale dell’architettura ad averne la peggio.
Unica consolazione: se, come affermato su Abitare dal Suo collega Vittorio Gregotti, Gehry fa opere di sartoria, molti di voi accademici riuscite a malapena a rammendare.
Forse è in questa accezione che lo stesso Gregotti, a proposito di Modena, parla di ” area dove il nuovo è difficile da unire all’antico” . Il problema non esiste: il nuovo inteso quale modernità contemporanea non può porsi il problema dell’unione con l’antico. I progetti di Gehry post-Santa Monica hanno in essi l’azzeramento del linguaggio architettonico, oltre ogni pretesa di superare crisi presunte o tali del M.M. a mezzo del ritorno al passato.
Cara Aulenti, il “grado zero” non è una moda, perché solo chi è consapevole della storia lo può applicare nelle proprie architettura. E’ una scelta, è una ricerca spoglia da tutte le frustrazioni insite nella volontà di affermare delle verità assolute. Gehry non è insensibile alla storia – Borromini e Wright su tutti – ma il suo grado zero è – citando L.Prestinenza Puglisi << garantito da una lingua che, rispetto a quelle colte e paludate, è sicuramente più flessibile e più aderente alla realtà dei fatti, perché meno compromessa da canoni stilistici e da apparati teorici consolidati>> . Mi chiedo che tipo di rapporto Lei abbia avuto con Oldenburg, soprattutto se si tiene conto che lo conosceva quale artista della Pop Art, quell’ Oldenburg così importante nel percorso di Gehry. Come può avere accettato una scultura di Oldenburg a colloquio con la Sua architettura? O forse si tratta di due cose diverse essendo l’una un’architettura e l’altra una scultura? Siamo ancora impantanati nella suddivisione in ambiti disciplinari? Bene a sapersi…
Considerando il progetto di Gehry un lavoro “essenzialmente di scultura”, Gregotti lo conferma. Mi sorge però il dubbio che Gregotti non conosca a fondo la poetica architettonica di Gehry e l’essenziale contributo della scultura che in essa si può rintracciare. Ma la scultura non aveva un ruolo fondamentale anche nella città classica così come Gregotti la immagina? Non instaura forse con l’architettura rapporti spaziali? Probabilmente c’è una bella differenza tra l’Arco di Trionfo e la Porta di Gehry, ma entrambe le opere hanno significato spaziale con l’intorno architettonico, l’una di assoluta staticità, l’altra di accentuato dinamismo.
Caro Gregotti, condivido in pieno la Sua affermazione sul Guggenheim di Bilbao ” è un’opera di ottima architettura, ma come Gaudì all’inizio del ‘900 è fuori dalla tradizione” , perché rimarca le differenze che dividono tutti noi anticlassici contemporanei da tutti voi.
Non ho mai avuto dubbi sulla Sua preparazione e quanto da Lei affermato ne è la prova: Gehry è fuori da qualsivoglia tradizione – evviva!- e ha lo stesso genio spaziale di Gaudì. Lei è stato molto chiaro affermando quanto sopra, poiché ci incita a considerare la tradizione unico modo con cui l’architetto debba cimentarsi, perché oltre ci sarebbe esclusivamente un atto creativo fine a se stesso. Le riconosco la coerenza che da quaranta anni professa, ma mi permetta di obiettare sul fatto che la tradizione è morta e sepolta proprio da quaranta anni e che l’Italia non può ancora vivere sui suoi ruderi concettuali. Abbiamo un patrimonio fantastico, ma ciò non implica che, come dice la Aulenti, non serva costruire ex novo.
L’Italia non è fatta solo di simmetrie rinascimentali o città ideali ma è piena di architetture che spazialmente parlano lingue diverse e possono farci intendere meglio di qualsiasi altro esempio quanto sia importante andare oltre i riferimenti archetipi; tutto ciò a dimostrazione della loro possibilità di dialogare per la creazione di uno spazio urbano anch’esso dinamicamente vissuto. Roma è lì, pronta a dimostrarlo.
Caro Arch. Gregotti, gentile Arch. Aulenti, dalle Vostre parole pubblicate sulla Stampa del 29 dicembre 2000 traspare quasi un senso di soddisfazione per la rinuncia di Gehry, quasi a volere dire che l’ha capito da solo che in Italia non si può costruire oltre la “tradizione” come da Voi intesa.
Vero: Gehry è fuori dalla “tradizione” così come lo era Gaudì, ma oggi Gaudì non sarebbe un genio isolato perché la forza dirompente della sua spazialità architettonica avrebbe la stessa risonanza di quella di Gehry.
Gaudì fu genio “isolato” per diversi motivi, ma le sue opere hanno avuto notevole peso in architettura e tanto più ne avrebbero avuto quelle del “visionario” (?!) Finsterlin se solo ne avesse edificata una. “Isolati” o
“visionari” che siano stati, oggi sono ampiamente riscattati dalle opere di Gehry. Forse è un caso che il Guggenheim sia stato costruito proprio nella terra di Gaudì…? Corsi e ricorsi storici…
(Paolo G.L. Ferrara – 18/11/2000)
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