“Siamo una democrazia. Non viviamo di comando, ma di conoscenza e partecipazione condivise”.
(Angela Merkel)
Recentemente ho pubblicato, in occasione della morte di Vittorio Gregotti, un breve testo del quale ho ricevuto elogi ma anche rimproveri per la crudezza del giudizio, ritenuto inopportuno in occasione della sua morte. Ovviamente, provo per lui partecipazione e sincera compassione, così come la provo umanamente per qualsiasi mio simile che giunga alla fine dei suoi giorni, perdipiù nel bel mezzo di un’epidemia. Ancora ovviamente, non credo che sarebbe un gesto leale e onesto, nutrendo per lo stesso pochissima stima professionale, celebrarne ipocritamente la fama, il potere e la gloria. Chi lo ha fatto avrà sicuramente le sue buone ragioni, ma io vi assicuro che ho le mie per non farlo, e siccome sono stato sollecitato a dire i motivi della disistima recentemente dichiarata, approfitto dell’occasione per mettere in luce gli aspetti fondamentali che, secondo me, hanno permesso ad un mediocre progettista di scalare i vertici della cultura architettonica non solo nazionale.
Verso la metà degli anni settanta, secolo passato, frequentavo la facoltà di architettura di Torino, dove al tempo regnava l’autorevole figura di Roberto Gabetti, personaggio colto e raffinato, molto torinese, allievo di Mollino, del quale però aveva ereditato solo il gusto aristocratico e reazionario per il passato prossimo. Lontano anni luce dalle pericolose acrobazie del moderno, s’infilò da subito nel train de vie dei salotti buoni ereditati dal suo maestro, ricordando ad un paese ancora stordito da vent’anni di fascismo che, in fondo, per quanto riguardava l’architettura, non era successo un granché. Il rigurgito nostalgico e storicista di quegli anni influenzò la maggior parte del corpo docente italiano e, a discesa, calò come una frana devastante sugli studenti. La didattica, austeramente controriformata dopo le follie sessantottine, da nord a sud, non si reggeva più sugli argomenti catartici del razionalismo internazionale, che aveva liberato le case degli uomini dalla loro prigione etnica e culturale. Lo storicismo di quegli anni, ritenuto il razionalismo privo di autenticità (identità) per via della sua vocazione sovrastorica, traeva le sue conclusioni scavalcando mezzo secolo di travaglio esistenziale, come se, per salvare la faccia di quel passato che aveva procurato i disastri di due guerre e un genocidio, fosse sufficiente ignorarlo e andare a ripescare chincaglieria dal robivecchi.
Ho descritto in breve il clima di quegli anni di Torino ma, credo, lo stesso valesse per Milano, Roma, Firenze, Venezia, con dentro tutte le prime donne e le ballerine.
Gregotti fu una di queste. Allievo di Ernesto Nathan Rogers iniziò quel percorso accademico e progettuale che ora gli viene riconosciuto e che proprio in quell’esordio potè trovare il suo peccato originale.
Per comprendere il confine della teoria didattica di quel tempo, che praticamente il nostro autore ha praticato fino alla fine dei suoi giorni, ripropongo lo stralcio d’un breve testo tratto da Casabella n. 566, del marzo 1990, che lo stesso diresse in quegli anni. Titolo: Università: le condizioni della futura autonomia.
Si parla di crisi della scuola.
“Il primo livello è “…l’assenza di orizzonti e fondamenti comuni nell’architettura…”
Il secondo livello è “…il rapporto tra scuola e domanda sociale del mondo del lavoro.”
“Un terzo livello di crisi è costituito dal corpo di professori, del tutto insufficiente sia qualitativamente che quantitativamente: e non solo in Italia. Solo che, mentre in molte facoltà europee la piccola dimensione ed i metodi empirici permettono di costruire una preparazione di mestiere di modesti obiettivi ma sufficiente, in Italia ciò è diventato praticamente impossibile; per ragioni strumentali, di finanziamento, di spazi, di efficienza organizzativa, di affollamento delle facoltà (che potrebbero essere suddivise per esempio secondo il modello francese in unità pedagogiche di dimensioni più ragionevoli) ma soprattutto a causa del disorientamento inflitto agli studenti da una geografia di posizioni che più che pluralista è spesso del tutto soggettiva ed incomprensibile.
Il quarto livello di crisi è quello della vocazione all’architettura da parte degli stessi studenti. Non parlo qui di talento naturale, sappiamo bene che si impara a progettare, a disegnare, a rappresentare e a vedere come si impara a leggere ed a scrivere. Il problema è la tensione verso questo particolare mestiere, che deve guardare all’architettura come modo di accedere al mondo, di capirlo e trasformarlo; senza questa attitudine ossessiva è molto difficile diventare buoni architetti. Ma dobbiamo pur dire che tale questione (quando non si identifica con il puro successo) è oggi molto difficile da perseguire: infatti, mai come in questo periodo di caduta dell’ideologia, l’ideologismo della mediocrità è divenuto diffusamente imperante.”
Questo breve testo, da solo, ci dice più cose:
“…l’assenza di orizzonti e fondamenti comuni nell’architettura…”
Stabilire fondamenti e orizzonti per una materia come l’architettura, che essendo anche un’arte, per di più pubblica, quindi capace di suscitare la suggestione necessaria per formare la sensibilità di chi la osserva, appare impresa non solo inutile ma controproducente. Compito dell’arte, anche in quella minima parte che può appartenere all’architettura, non è seguire le regole, o mercanteggiare quelle che meglio servirebbero, ma piuttosto inventarle. Occorrono una smisurata ambizione e una pari presunzione per pretendere che la propria verità, ancorché negoziata, possa calarsi come un dato oggettivo. Le esperienze ricche comportano una pluralità di voci, mai una sola.
“…ma soprattutto a causa del disorientamento inflitto agli studenti da una geografia di posizioni che più che pluralista è spesso del tutto soggettiva ed incomprensibile.”
C’è subito da chiedersi: la geografia di posizione di Gregotti è forse l’unica giusta? È forse solo lui a conoscere la ragione per cui la sua architettura non sia del tutto soggettiva e incomprensibile? Su quale legge fisica o filosofica basa le sue dichiarazioni? E chi non la pensa come lui, non ha lo stesso diritto di promuovere didatticamente le proprie convinzioni? Ma la domanda fondamentale è: esistono regole per fare l’architettura o è lei stessa a stabilire le sue regole?
“Non parlo qui di talento naturale, sappiamo bene che si impara a progettare, a disegnare, a rappresentare e a vedere come si impara a leggere ed a scrivere.”
Vero, tutti possono leggere e possono anche imparare a scrivere, ma dipende dal come si scrive. Leggere e scrivere non sono atti simmetrici. Si può leggere qualsiasi testo, anche impegnativo e profondo; ma scriverlo proprio no. Per scrivere, a di là della lista della spesa, ci vuole talento, in architettura molto più che in letteratura, e il talento è un dono, che è innato e si può solo affinare. Nessuna società sensata può farne a meno tranne, per Gregotti, gli architetti. Per questo motivo la scuola, luogo deputato oltre che all’apprendimento anche al confronto ed alla ricerca di idee e soluzioni, dovrebbe favorire, cercare e promuovere il talento, senza ignorarlo e abbandonarlo al suo destino personale e privato. A proposito di personale, voglio citare un’altra vicenda.
Ai tempi miei, in uno degli esami di progettazione, il prof Varaldo, Gabettiano, mi spiegò che la scuola pubblica non era interessata ai talenti. Scopo della scuola pubblica era formare un livello standard di progettisti degno del proprio tempo, per poter alzare la qualità media degli edifici. Quando mi presentai all’esame, con un progetto notevolmente superiore alle sue aspettative e a quelle dei miei compagni, mi redarguì dicendo che, da valdostano, per salire sul Monte Rosa, non sarei dovuto partire da Gressoney, ma dal basso, come tutti gli altri. Deluso, non ripartii e lo salutai.
Cito questo fatto perché è sintomatico della volontà, da parte dei docenti di allora, di voler adeguare la cifra dell’architettura alle loro teorie e non le loro teorie all’architettura, proponendo una sorta di ribaltamento di senso che, da un lato impone ai progetti concreti di soggiacere all’autorità delle teorie; dall’altro, riempiendosi il mondo di progetti frutto necessario di quelle teorie, ne giustificano l’autorevolezza. Un vero circolo vizioso, nel quale tenere in mano il punto d’origine diventa molto complicato quando in gioco ci sono energie emotive, e spesso finanziarie, consistenti.
Nel mondo che ho appena raccontato, Vittorio Gregotti eccelleva.
Aveva chiaro fin dall’inizio che il successo della carriera professionale di un architetto di alto rango dovesse reggersi principalmente su basi teoriche solide e riconosciute, occupando gli spazi della comunicazione e della didattica, i quali mediaticamente favorivano un ruolo di preminenza professionale. Una volta conquistati i vertici, grazie alla rete di complicità accademiche che non ha mai escluso nessuno – se non per ragioni di galateo – non gli è stato difficile costruire una immensa produzione progettuale. Una produzione che, secondo me, non ha mai raggiunto i vertici dell’eccellenza ma che si è fermata al mestiere. Mestiere di cui è stato gran conoscitore e che ha posto a fondamento della sua teoria della progettazione. Ai suoi studenti insegnava un mestiere, un lavoro, coi tratti del silenzio, della cautela, del rigore: “…cercate di non essere originali, né tantomeno artisti”, “ …dobbiamo fare cose che appaiono come fossero sempre state”, “ …quando fate architettura, fate il meno rumore possibile”.
Tutti consigli che lui ha ovviamente ignorato in molti suoi progetti, che sono ingombranti, pesanti e stridenti ma, effettivamente, non urlano mai. Di ridere non se ne parla nemmeno.
Le parole contenute in questi dettati professionali, apparentemente ingenue e sensate, sono però molto importanti ai fini pedagocici. Sono perfette, infatti, per istruire la servitù verso il padrone. Il fatto di non fare gli strani, di non farsi notare e di stare in silenzio, credo che sia virtù molto apprezzata tra gli aristocratici.
Da queste poche parole, quindi, si può dedurre come dev’essere secondo lui intesa la figura dell’architetto, ovvero come quella d’un discreto e zelante servitore d’una condizione data, dogmatica e indiscutibile sul piano dei presupposti, narrativamente confortante e, soprattutto, solida come il potere costituito sa e vuole essere.
E questo è un problema molto serio: sul piano etico, per la semplice ragione che solo un atteggiamento acritico e neutrale può concedere l’accesso a un numero molto alto di incarichi; sul piano architettonico, perché costringe i progetti a esprimere prudenza e sottomissione a regole costruite per non cambiare nulla da chi ha interesse a che nulla venga cambiato.
Progetto e realizzazione devono avvenire senza che il linguaggio adottato susciti imbarazzo e tutto deve succedere internamente ad una retorica di regime. Un regime nel quale si deve essere ovviamente compresi, con tutto l’apparato culturale di cui si può disporre e del quale si può rivendicare il primato.
C’è da chiedersi, a questo punto, se un sistema culturale debitamente drogato possa avere la possibilità di promuovere personaggi il cui rilievo non corrisponda agli effettivi meriti. Io credo di sì, anche perché tutti quelli che non sono disposti a soffiare aria nei tromboni del consenso stanno sempre fuori dalla banda.