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In bilico: Sartogo tra arte e architettura

AntiTheSi ha voluto ricordare l’architetto Piero Sartogo a sei mesi dalla scomparsa non con le sue celebrate architetture (l’Ordine dei Medici, la chiesa alla Magliana a Roma, l’ambasciata italiana a Washington D. C. o la Cantina a Monti presso Siena) ma attraverso lo sguardo diagonale e appassionato di questo grande architetto verso l’Arte. Sartogo è stato infatti autore di memorabili allestimenti, non solo quello di «Roma Interrotta» ai mercati traianei.

Che la narrazione prevalente della storiografia architettonica del Novecento abbia trascurato alcuni personaggi di grande talento è questione nota. I motivi di questa omissione sono molteplici, ma certo le figure meno studiate non erano inquadrabili dal pensiero dominante che tese a escluderle per questioni ideologiche, e coloro che si sono occupati prevalentemente della dimensione professionale del costruire sono stati spesso messi in disparte dalla cultura architettonica italiana, spesso accademica. Uno di questi personaggi è proprio l’architetto Piero Sartogo (Roma, 6 aprile 1934 – Roma, 11 marzo 2023) . 

Ci siamo conosciuti nel 2020, quando sono andata a intervistarlo per un articolo su Roma interrotta, la geniale mostra del 1978 ai Mercati Traianei nata da una sua idea: far ripensare Roma a dodici architetti coinvolti in un gigantesco time out, come commentò Costantino Dardi, a partire dalla pianta di Giovanni Battista Nolli del 1748 come ultimo documento di un disegno urbano coerente, poi frantumato dai disegni per Roma Capitale e per la Terza e Quarta Roma. 

Ci siamo ritrovati l’anno successivo alla bibliotheca Hertziana a guardare insieme il documentario La rivoluzione siamo noi (di Ludovico Pratesi, regia di Ilaria Freccia, Luce-Cinecittà, 2020) sugli anni inebrianti che ha vissuto l’arte in Italia tra il 1967 e il 1977, e lui riconosceva tra gli artisti tutti i suoi più cari amici. 

Poi, in varie occasioni, sono tornata a trovarlo per intervistarlo nel suo studio in via Sardegna, a un passo dalle Mura Aureliane e da ciò che resta della Dolce Vita di via Veneto. 

Al suo carattere, che a una prima impressione poteva risultare burbero e molto esigente, si accostava sempre una grande ironia, una attitudine da gentleman, un avvincente savoir-faire. Tra i tanti, divertentissimi, episodi che mi ha raccontato della sua giovinezza, un aneddoto in particolare mi ha fatto capire il motivo per cui egli ha saputo instaurare, più di ogni altro architetto in Italia nella seconda metà del Novecento, un rapporto ineguagliabile con il mondo dell’arte contemporanea: la bella palazzina in via Salita dei Parioli dove Sartogo è cresciuto e dove ha abitato fino alla fine, era stata costruita da suo padre insieme a Riccardo Gualino, grande industriale italiano mecenate dell’arte per il quale nel 1928 Giuseppe Pagano costruì a Torino il famoso Palazzo Gualino. Rientrato dagli anni di confino durante il fascismo, Gualino aveva ripreso la sua attività imprenditoriale fondando la Lux Film e producendo fra gli altri i film di Luchino Visconti, Federico Fellini e Roberto Rossellini. Gualino abitava nell’attico e possedeva una importante collezione d’arte. Così, mentre un giovanissimo Sartogo correva su e giù per le scale incontrando Giulio Carlo Argan, Palma Bucarelli e Lionello Venturi che arrivavano a studiare la collezione, vedeva le opere acquistate che salivano e, se di grandi dimensioni, venivano issate con delle corde nel vuoto tra le rampe delle scale. Non credo sia difficile immaginare che impressione possa aver fatto su un ragazzo curioso, intelligente ed estremamente sensibile al bello, trovarsi in continuazione davanti alla porta di casa innumerevoli capolavori di ogni provenienza ed epoca, dai fondi oro senesi del Trecento alle grandi tele di Scipione. 

In quegli anni giovanili Sartogo aveva molte passioni, lo sport in generale per il quale era portatissimo e soprattutto il calcio, giocava come ala in attacco e non si stancava di ripeterlo. Era molto legato al padre, avvocato antifascista scampato per un pelo ai nazisti che lo ricercavano perché legato alla Resistenza, ma, ribelle fin da giovanissimo, Piero aveva deciso di non seguirlo nella sua professione e di diventare architetto. Molto probabile che avesse influito in questa decisione il primo dei suoi poi molteplici soggiorni in America, dove era stato mandato per frequentare un corso presso la IBM che trovava tremendamente noioso, e appena poteva fuggiva per ascoltare concerti jazz e visitare il MoMA. 

Quando raccontava della sua giovinezza si illuminava, veniva fuori il suo temperamento entusiasta e coinvolgente, non aveva alcuna remora nel far capire che nella vita si era molto divertito, nulla a che vedere con l’austerità a volte un po’ ottusa e giudicante di alcuni suoi colleghi. Questa curiosità per mondi diversi lo aveva arricchito, e amava sempre aprirsi verso altre discipline con un’attitudine mai superficiale: il fine ultimo era sempre il progetto d’architettura, tema prediletto per il quale nutriva un amore profondo.

Questo amore si era acceso e ravvivato attraverso due esperienze fondamentali. Prima di tutto l’incontro appena laureato con Walter Gropius, con il quale Sartogo aveva instaurato un sodalizio duraturo collaborando con The Architects Collaborative, lo studio fondato a Boston con i suoi collaboratori e ex allievi quando era preside di Harvard. E poi, sempre grazie all’intervento di Gropius, il conseguimento della borsa di studio per l’International House of Japan, e quindi il viaggio durante il quale era entrato in contatto con il gruppo dei Metabolisti che gravitano intorno a Kenzo Tange, tra i quali Kiyonori Kikutake, Kisho Kurokawa, Fumihiko Maki e Arata Isosaki.

Insomma: architettura, arte, musica, viaggi e anche una grande passione per la Gestaltpsychologie e in particolare per gli studi di Rudolf Arnheim, i cui “concetti percettivi” Sartogo trasportava nel campo dell’architettura per innescare continuamente processi inusuali di visione.

In questo scritto che AnTiTHesi mi ha chiesto per ricordare l’architetto omano a sei mesi dalla sua scomparsa, mi sembra interessante soffermarmi su alcuni lavori nei quali questo intreccio di passioni innesca una vena inventiva del tutto particolare e provoca cortocircuiti continui tra progetto d’architettura ed espressione artistica in generale: oltre alla già menzionata Roma Interrotta sulla quale molto si è scritto, Sartogo allestisce a Roma altre tre mostre d’arte tra le più rivoluzionarie degli anni Settanta. Le operazioni che mette in atto in queste occasioni non sono mai semplici allestimenti, ma gesti di “coordinamento dell’immagine”, manovre visuali che esprimono tutte le intenzioni critiche delle esposizioni. 

Coordinamento dell’immagine per l’esposizione Amore Mio, Palazzo Ricci, Montepulciano, giugno – settembre 1970

La prima è Amore Mio, nata sull’onda del Sessantotto, realizzata nel 1970 a Palazzo Ricci a Montepulciano in collaborazione con Achille Bonito Oliva. Gli artisti coinvolti sono fra gli altri Gino Marotta, Fabio Mauri, Gianni Colombo, Enrico Castellani, Paolo Scheggi e Vettor Pisani. L’idea nasce dallo studio dello spazio a disposizione, il grande cortile centrale del palazzo, chiuso su tre lati e affacciato sulla chiesa di San Biagio di Antonio da Sangallo il Vecchio. Sartogo ha una precisa intenzione: trovare una soluzione per evitare una disparità che si sarebbe creata fra gli artisti che avrebbero ottenuto le stanze migliori e quelle peggiori. Così inventa un sistema di tracciati che costringe i visitatori a entrare uno alla volta, scegliendo all’ingresso uno dei binari progettati senza conoscerne la destinazione: non si può decidere in quale stanza entrare per prima e si capita di fronte all’opera con un andamento casuale. Uscendo da ogni stanza, il visitatore dovrà poi rientrare nel binario e compiere un momento di pausa, una interruzione fondamentale nella visita tra due opere successive. Il labirinto di binari è costruito molto semplicemente, piccoli muretti in tavelle di cotto da cantiere, sui quali sono disposti elementi metallici a forma di U con dell’erba nel mezzo. Ma l’idea è veramente ingegnosa: mettere il visitatore a tu per tu con l’artista in un percorso di incontri successivi individuali, una performance dove l’artista è certo protagonista, ma anche il visitatore che entra e esce dal tracciato è sempre attivo e partecipe. All’inaugurazione Argan e Bucarelli rimangono colpiti, la mostra ha un successo sorprendente e Sartogo e Bonito Oliva inaugurano un fruttuoso sodalizio.

Coordinamento dell’immagine per l’esposizione Vitalità del Negativo, Palazzo delle Esposizioni, Roma, novembre 1970 – gennaio 1971 ©SartogoArchitettiAssociati

Nello stesso anno 1970 arriva un’altra occasione, grazie all’intervento di Graziella Lonardi: l’allestimento della mostra Vitalità del Negativo a Palazzo delle Esposizioni a Roma, che coinvolge molti artisti tra cui Jannis Kounellis, Alighiero Boetti, Gabriele De Vecchi, Tano Festa, Giulio Paolini, Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto e Mario Schifano. L’intervento di Sartogo si concentra nello spazio centrale del palazzo di Pio Piacentini, con le grandi colonne che sorreggono la cupola centrale. L’intento è togliere a quello spazio ogni aura classicheggiante, e così la cupola sparisce confinata nell’oscurità attraverso la sovrapposizione di una banda con teli neri, che poi scendono per avvolgere le colonne e formano una tessitura geometrica. Dei proiettori sono predisposti sul perimetro dell’atrio per annullare la luce proveniente dall’alto e costruire un volume illuminato solo in basso, sovrastato dal buio. La luce che colpisce le sagome delle persone ingigantisce le ombre che si riflettono sulle basi delle colonne. Di nuovo, i movimenti dei visitatori intervengono nella resa percettiva dell’intera esposizione ed è espresso abilmente il concetto di “vitalità del negativo”: la presenza di un elemento contraddittorio anche nello slancio progressista dell’avanguardia. 

Coordinamento dell’immagine per l’esposizione «Contemporanea», parcheggio di Villa Borghese, Roma, novembre 1973 – febbraio 1974

Qualche anno più tardi Sartogo si deve confrontare con un altro spazio interessantissimo, forse ancora più difficile da gestire: il parcheggio sotterraneo di Villa Borghese realizzato da Luigi Moretti nel 1966-1972. Si tratta dell’allestimento per l’esposizione Contemporanea del 1974, sempre in collaborazione con Achille Bonito Oliva e Graziella Lonardi, una mostra interdisciplinare che coinvolge danza, musica, cinema, teatro e fotografia. Sono chiamati artisti di fama internazionale tra cui Jasper Johns, Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Donald Judd, Joseph Kosuth, e Gilbert & George, per nominarne solo alcuni, con coordinatori specializzati, per l’ambito musicale Philip Glass e Keith Jarrett, per quello teatrale Robert Wilson. Intanto, a poca distanza dal parcheggio, Christo impacchetta le Mura Aureliane e Porta Pinciana e l’esposizione invade una parte storica della città. Anche questa volta l’idea allestitiva è chiara: la distribuzione non deve avvenire in maniera canonica (con celle espositive ai lati di una corsia del parcheggio) e non si deve annullare la sensazione di essere all’interno di uno spazio enorme. Sartogo utilizza maglie a rete metallica poste una dietro l’altra per progressioni successive, fino ad arrivare a quattordici maglie di rete sovrapposte. La rete se vista in diagonale diventa opaca, se la si osserva frontalmente sparisce, e apre alla percezione degli ambienti retrostanti. I diaframmi disposti in progressione rispetto all’asse del parcheggio formano un labirinto dal quale il visitatore è avvolto alla ricerca delle opere. Opere che appaiono e scompaiono sovrapponendosi le une alle altre, illuminate dal neon blu che aggiunge l’effetto di una evanescente nebbia tecnologica. La mostra ha un successo enorme. Sartogo nel frattempo continua a lavorare, e dopo queste tre mostre porterà per sempre con sé un bagaglio di una ricchezza incomparabile, per gli stimoli che ha assorbito dal mondo dell’arte e che trasformerà in continue sfide nella sua sempre più interessante architettura. 

Anche se ci ha lasciato lo scorso marzo Piero Sartogo continua a parlarci così chiaramente, così gioiosamente. È un invito a studiarlo e conoscerlo sempre meglio.

Di tutte le immagini il copyright è di ©SartogoArchitettiAssociati. Si rimanda al Sito per approfondire l’opera svolta da diversi decenni con l’architetto Nathalie Grenon e con l’architetto Elica Sartogo

in copertina Piero Sartogo, alla Biennale di Venezia mentre esamina un modello di Peter Zumthor, 24 maggio 2018

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