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Perdersi nell’astrazione: la pittura di Attilio Terragni

antiTHeSi ha sempre valorizzato la ricerca artistica fino a sostenere con i fondatori Paolo Ferrara e Sandro Lazier che l’arte sia l’unico alimento indispensabile al progetto di architettura. Pur conoscendo l’attività architettonica di Attilio, il pronipote del sommo Giuseppe Terragni, solo di recente la sua ricerca pittorica è giunta ad essere nota ai più. Attilio Terragni ha reso disponibile ai lettori un recentissimo catalogo delle sue opere ed ha chiesto al suo amico e co-autore Valerio Mosco di scrivere alcune righe introduttive sul proprio lavoro.

di Valerio Mosco

“Tutto converge allo stesso scopo e tutto serve ad uno sviluppo che è impenetrabile e inimitabile” Robert Musil, L’uomo senza qualità

Attilio Terragni, 156/157 – MEDITATION ON LIGHT AND SHADOW ACRILICO E CHINA SU CART

C’è un momento nell’astrazione in cui la stessa è come se procedesse autonomamente, per un suo volere intrinseco. E’ un momento che non arriva per illuminazione, non è gestuale come potrebbe sembrare, ma giunge con il continuo esercizio, con l’immergersi del pittore nei segni e nei colori che non rappresentano, ma evocano. L’astrazione come pratica dunque, come allenamento alla stessa, da ciò è necessario partire per avvicinarci al lavoro di Attilio Terragni. I suoi quadri, il più delle volte di grande dimensione, sono densi di segni, colori, trame e tessiture.  Lo stare nella tela di tutto ciò è il frutto di un lungo lavoro immersivo da parte dell’autore, di una pratica che ha un che di ascetico, se per ascesi si intende il lasciarsi trascinare in un altrove che sublima la realtà senza rinnegarla. Data la densità questi quadri danno l’impressione di una profondità di campo che l’astrazione di sua natura accetta mal volentieri. Rothko è stato il primo ad opporsi alla piattezza dell’astrazione. Egli sognava (ed è riuscito a produrre) un’arte che potesse “to engulf the spectator”, che potesse avvolgere lo spettatore, come circondandolo. Terragni non intende deliberatamente attrarre lo spettatore dentro il quadro, o almeno non intende far ciò con l’immediatezza di Rothko. Per essere attratti dalla densa astrazione di Terragni è necessario del tempo, bisogna entrarci con una insospettabile discrezione per poi abbandonarsi ad essa. In questo nostro abbandono prende vita il quadro, si anima acquistando una profondità insospettata: una profondità pimpante.

Attilio Terragni, 6- E3081, 89 MATITA, PENNA SU CARTA

Il più delle volte nei quadri di Attilio Terragni ci si perde. Sappiamo che il perdersi è una delle tecniche dell’avanguardia. Una pratica nata in letteratura e in seguito importata nelle arti visive. Nel secondo caso ne è risultata una sorta di flânerie formale per cui il quadro è come si costruisse da solo, come per altro si costruisce da sola l’esperienza del dandy che se ne va senza meta per la città, attratto non da una cosa in particolare, ma dallo spettacolo, noioso o eccitante che sia, della metropoli. Il perdersi nei quadri astratti ha un sapore del tutto particolare. Esso induce in chi li guarda una dicotomia: o si viene del tutto attratti dal quadro, o lo stesso si pone, quasi per ritegno, in uno sfondo, come se intendesse far parte dell’ambiente. Rimane il fatto che l’astrazione densa e pimpante di Terragni, per nulla pedante, anzi pimpante fino ad affacciarsi nel pop, è come se cercasse nell’astrazione la capacità narrativa della stessa. Sappiamo che l’astrazione ha prodotto nel corso nel ‘900 diversi linguaggi, dal cubismo all’espressionismo astratto, linguaggi spesso sofisticati, ma che a stento (e ciò rappresenta uno dei limiti dell’avanguardia) sono riusciti a diventare narrazione: narrazione astratta, ma pur sempre narrazione. E’ la narrazione astratta che interessa ad Attilio Terragni: una narrazione che, come il free jazz, come John Coltrane, mette insieme più trame cercando un ritmo che le possa tenere insieme. Un ritmo a posteriori, che è come se prendesse forma man mano che il quadro viene alla luce. Un ritmo per nulla compositivo, per nulla governato da logiche a priori, ma auto-governato dal suo attento svolgersi. I migliori quadri di Terragni sono allora quelli in cui la narrazione di questi ritmi, il loro intreccio di linee, punti e superfici, ha la capacità, nonostante la complessità formale a cui l’autore giunge, di raccontare le proprie origini, di come il tutto ha avuto inizio. Allora compaiono le ragioni del perdersi, del seguire con istinto la forma e il colore, stesse ragioni che alle volte appaiono nel nostro privato, in quei momenti in cui la disponibilità a l’apertura prevalgono, in quei momenti in cui si intravede lontana ma forse raggiungibile, una qualche gioia di vivere. 

Attilio Terragni, 70/88- METAMORFOSI -TACCUINO MATITA, PENNA SU CARTA

in copertina
Attilio Terragni, 120- ZABRISKIE POINT ACRILICO E OLIO SU TELA

Per approfondire Scarica il catalogo
TERRAGNI RIVERRUN, Milano 2022

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