L’articolo ricostruisce l’attività ventennale del movimento d’avanguardia napoletano, dal “Gruppo ‘58”, legato all’esperienza dell’arte nucleare, alle varie riviste prodotte nei decenni successivi. L’elemento di continuità è la ricerca di un’arte totale che superi le specificità disciplinari, individuando, al contempo, forme di produzione radicalmente alternative al mercato. Il lascito di questa esperienza sta nella radicalità delle scelte compiute sul piano linguistico e nel rifiuto di un’arte ridotta alla mera declamazione o alla sua mercificazione.
di Paolo Allegrezza
Il manifesto della Pittura nucleare, scritto da Enrico Baj e Sergio D’Angelo in occasione della mostra di lancio del movimento (Bruxelles, 1952) è al contempo atto di accusa nei confronti delle prime avanguardie e ripresa di un tema profondamente novecentesco quale la reinvenzione della pittura. Costituisce l’atto fondativo del secondo ciclo delle avanguardie in Italia, ispirato al ripensamento dei modi e delle forme dell’arte che, pur tenendo in conto la lezione Dada e Surrealista, intende superarla in nome di un rinnovato rapporto critico con la realtà. La centralità assunta dai materiali, la negazione dell’opera sostituita dal suo farsi, la volontà di affermare la nuova verità dell’umano contenuta nell’atomo, sono espressione di una nuova consapevolezza dell’artista, radicata in un presente erede degli orrori della guerra e segnato dal nuovo equilibrio nucleare.
I nucleari – appunto – rileggono i maestri dadaisti e surrealisti (Ernst, in particolare) non trascurando espliciti richiami a Pollock, all’espressionismo astratto, all’arte giapponese. Considerano indispensabile l’apertura al plurilinguismo, unico in grado di rendere quel grado di intensificazione cui la percezione è sottoposta nella nuova era dell’atomo. Ne scaturisce un’arte di opposizione, volta al ribaltamento dei tradizionali percorsi di fruizione (mostra, critica, galleria) che tendevano a confermarne la riproduzione mercantile. Di qui la destituzione dello stile: un rifiuto della codificazione, cui si oppone il gesto come espressione dell’ inconscio collettivo. L’opera diventa documento dell’evento artistico e Per la scoperta di una zona d’immagini, il manifesto del 1956, sancisce anche un richiamo al mito, ad mmagini vergini, auto giustificate ed in quanto tali in grado di affermare una vitalità gioiosa (tema quest’ultimo che ritroveremo a Napoli nel lavoro del Gruppo ‘58). Sono i prodromi del manifesto Contro lo stile (1957, firmato tra gli altri da Baj, D’Angelo, Colucci, Bemporad, Sordini, Verga) che proclama l’esaurimento dell’esperienza nucleare e apre alla “presenza” del mero atto, contro ogni tentazione celebrativa. L’accusa di accademismo che questi artisti rivolgono alle prime avanguardie coglie un nodo reale allorché allude al processo di musealizzazione subito dai vecchi leoni degli anni ‘20. Ha il merito di una ulteriore radicalizzazione senza indulgere in tentazioni linguisticamente regressive.
Il legame tra Milano e Napoli è forte fin dalla fondazione del gruppo “Concretista” napoletano nel ‘54, il cui manifesto, firmato da Barisani, De Fusco, Tatafiore, Venditti, rimanda ad un nuovo astrattismo in grado di rappresentare la realtà fuori dei cerebralismi delle esperienze primo novecentesche. Si tratta dell’annuncio di una “nuova figurazione” (Sanguineti) che pochi anni dopo segnerà la poetica della neo avanguardia artistica napoletana. Ma ha la sua premessa nel rapporto con il movimento nucleare, allorché Biasi e Colucci si recano a Milano per incontrare Baj e definire la base teorica del “Gruppo ‘58” (Luigi Castellano, Luca, Guido Biasi, Mario Colucci, Bruno Di Bello, Lucio Del Pezzo, Sergio Fergola, Mario Persico). Un percorso segnato dall’adesione dei napoletani al movimento nucleare e ai suoi sviluppi nel corso degli anni ‘50, come dimostra la comune elaborazione dei tre manifesti del ‘57: “Per una pittura organica”, “Contro lo stile”, “Albissola Marina”. Il punto di contatto con i nucleari è nel comune interesse per un’arte allegorica, profondamente calata nel proprio tempo rispetto al quale l’artista non depone la sua necessaria assunzione di responsabilità. Al fondo vi è il rifiuto della neutralità dell’arte e della sua riduzione a innocua produzione di segni. Di qui l’uso, scevro dall’alfabeto realista, della figurazione e di un linguaggio esplicito che non rifiutasse, come insegnava Baj, l’adozione di moduli didascalici. Nelle figure allegoriche di Biasi e Persico, espressioni di un neo figurativismo debitore del folklore meridionale e immerse nel lascito dada e surrealista, si misura una distanza profonda dal realismo socialista, allora sostenuta dal Pci. In Ideologia e linguaggio (1965), Sanguineti, il più assiduo compagno di strada degli artisti napoletani, chiarirà il legame tra avanguardia artistica e sovversione: l’operazione sul linguaggio procede di pari passo con la destituzioni dei consolidati rapporti di forza nel campo sociale. I nucleari (e i napoletani lo capirono prima di altri) ebbero il merito di ripensare pratiche come il collage o il ready – made in una chiave non emotiva ma in grado di attivare nuove associazioni e significati. Non è un caso che lo stesso termine avanguardia sia messo in discussione – come si legge nell’editoriale di apertura di “Quaderno” (1962), la rivista diretta da Mario Diacono e Stelio Maria Martini – perché evocativo di una pratica puramente oppositiva. Conseguenza di questa ricchezza di percorsi è la presenza a Napoli non di un gruppo d’avanguardia, ma di un vero e proprio movimento che coinvolse artisti e poeti verbo visivi appartenenti a diverse generazioni in una pratica di ricerca e di opposizione che si sviluppò lungo almeno due decenni. La convergenza fra artisti e letterati si formalizzò per la prima volta nel Manifeste de Naples (1959). Firmato, tra gli altri, da Balestrini, Paolazzi, Sanguineti, Del Pezzo, Persico, Biasi, Baj, Fergola contiene un violento attacco all’astrattismo accusato di ridurre l’arte a convenzione intellettuale; “un neo neoplatonismo”, incapace di interpretare il presente e ormai privo di forza vitale. E’ l’alternativa all’astrattismo in nome della poetica della materialità dell’arte su cui da tempo si era concentrato il dibattito dei post nucleari e che qui si manifesta nella allegoria del Vesuvio, fonte di nuova energia.
Le Riviste
Il lavoro di questi anni trova una sintesi in “Documento sud”, la rivista che tra il ‘59 e il ‘61 dà voce al “Gruppo 58” e ne defiisce la poetica. Il motore della rivista è Luca, cui nel numero d’esordio si deve l’editoriale di apertura: divulgare le forme più vive ed attuali di un’arte che vuole misurarsi senza infingimenti con la vita contemporanea. Di qui, appunto, il legame tra il Gruppo ‘58 ed Edoardo Sanguineti che dei novissimi era il più disponibile ad entrare in sintonia con quell’idea di avanguardia totale che Luca assegna alla missione di “Documento sud”; ne deriva che più che di Gruppo ‘63 sarebbe corretto parlare di rapporto tra il movimento napoletano e Sanguineti, non a caso interessato ai napoletani, a scapito di altre esperienze coeve, come la nuova scuola romana, le cui influenze rimandavano alla pop art.
Uno dei protagonisti di quella stagione, a cavallo tra sperimentazione visiva e poesia, Stelio Maria Martini, ha indicato nel genovese “Gruppo studio” un’esperienza simile a quella napoletana proprio grazie alla comune carica anti establishment accompagnandovi un giudizio piuttosto liquidatorio nei riguardi del Gruppo ‘63, di cui rilevava la deriva “mondana e salottiera” (Martini, 2001, p. 26). Si profila una divaricazione fra due modi di essere avanguardia, uno incline alla conquista dell’egemonia culturale e destinata ad inserirsi nei ruoli di potere dell’industria culturale; l’altro volutamente marginale, incline a scelte di vita all’insegna della non integrazione. Esaurita la parabola del Gruppo ‘58 (causa l’allontanamento da Napoli di Del Pezzo, Fergola, Biasi) inizia un’ulteriore fase di espansione del movimento che, caso piuttosto unico, percorre il successivo ventennio. “Linea sud”, la rivista diretta da Luca di cui tra il ‘63 e il 67 uscirono sei fascicoli, è il risultato di questa ulteriore fase segnata dalla tensione verso l’arte totale. Biasi compare come corrispondente da Parigi, Balestrini da Milano, Diacono da Roma. Persico, Martini, Colucci intervengono regolarmente. La rivista sviluppa una linea più esplicita rispetto a “Documento sud” di cui riprende lo spirito combattivo ed il respiro internazionale. È una linea culturale che intende declinare in modo chiaro la poetica del movimento, in quanto espressione di quell’idea di avanguardia che considera inscindibile il binomio tra cultura di opposizione e rinnovamento del linguaggio: una via napoletana all’avanguardia in cui “i Nuovi del sud”, si candidano al ruolo di protagonisti dell’arte e della cultura italiane nella consapevolezza del proprio ruolo cui corrisponde un esibito radicalismo.
Stelio Maria Martini (“Linea sud”, 1/63) liquida la rappresentazione dell’alienazione proposta dalla letteratura industriale e in un articolo non firmato (probabilmente di Luca) è condannata la deriva commerciale del cinema, cui è contrapposta l’opera di Ejzenstein. Una opzione radicale che non dà credito a poetiche anti narrative e vertoviane, pur presenti nell’esperienza del nuovo cinema francese (Godard, Rouche). “Linea sud” è anche testimonianza di un’evoluzione nella poetica di Luca che, dall’impostazione meramente dada degli anni precedenti, passa all’idea di avanguardia come strumento di intervento politico da attivare grazie alla promozione di nuovi artisti e, naturalmente, gruppi. Una pittura legata all’immaginario visivo della tradizione popolare utilizzata, tuttavia, in chiave problematica e sempre più esplicita nella sua polemica.
Centrale quindi, nell’intera vicenda dell’avanguardia a Napoli, è proprio la figura di Luca, in grado di unire produzione artistica, lavoro teorico, ideazione e gestione di gruppi, riviste, mostre. Attivo dagli esordi del Gruppo ‘58 fino al limite degli anni ‘80, allorché l’idea della corrispondenza tra lavoro artistico e militanza conobbe un inevitabile arresto. La cifra della sua figura è nell’adesione ai principi della patafisica attivati nella pratica dello shock suscitato dal rovesciamento di senso. I materiali più diversi, di qui la predilezione per la pratica dada del collage, sono utilizzati per disarticolare percezioni consolidate e, soprattutto, quella tradizione napoletana fatalista e rassegnata che in quegli anni trovava una sua pur nobile espressione nel teatro di Eduardo. La patafisica forniva la strumentazione per praticare lo spiazzamento in modo non irrazionalistico, come spesso nelle avanguardie, ma calandolo a suo modo nella realtà, non per descriverla ma per pensarla. Un’operazione alternativa alla Pop art che alla critica e alla destituzione dell’immaginario consumistico, prediligeva la riproduzione seriale. Lontani i napoletani d’avanguardia erano anche dalla sperimentazione romana che negli anni ‘60 (Pascali, Festa, Angeli, Schifano, Fioroni) aveva sviluppato una sua via al pop. Se si vogliono trovare elementi di contatto con la ricerca italiana del periodo, il riferimento non può che essere all’arte povera, nella quale si ritrova la medesima istanza critica nei riguardi della mercificazione dell’arte. Il primo dei gruppi promossi da Luca è l’NA/6, (A. Dentale, Gennaro, P. Lista, M. Longo, S. Piersanti, Torre) che nel ‘62 raccoglie giovani artisti provenienti dall’Accademia di belle arti su una poetica in continuità con il Gruppo ‘58 approfondendo quella via meridionale all’avanguardia che mira a “creare immagini della nostra civiltà”. Del gruppo sono tuttora attivi Dentale, Piersanti e Michele Longo di cui qui proponiamo un recente lavoro di taglio concettuale. Seguono Operativo sud ‘64 (A. Dentale, G.B. Nazzaro, Ray Pattison, G.B. Del Pozzo, A. Bonito Oliva, F. Piemontese, A. Carlini), in cui l’accento militante richiama, a partire dal nome del gruppo, un intervento attivo degli artisti, Gruppo studio P. 66 – La Comune 2. Fino a giungere all’esperienza liminare di Prop art (‘73 – 75) in cui la pratica artistica diviene elaborazione collettiva al servizio della militanza politica.
Da Continuum ad E/MANA/AZIONE
Nei due ultimi numeri di “Linea sud” (1967) fa la sua comparsa una sezione denominata “Continuum” contenente testi di poesia visiva curati da Martini e Caruso. È l’esordio di uno spazio aperto di ricerca verbo visiva che negli anni successivi, fino ad “E/mana/azione” (1981) segna l’esperienza del movimento napoletano nella sperimentazione di un linguaggio unico delle arti. Protagonisti di questa fase sono Luciano Caruso, Stelio Maria Martini, Mario Diacono. Dopo la chiusura di “Linea sud” si apre una nuova stagione che vede la presenza di due tendenze che fino ad allora avevano convissuto dentro la rivista; da una parte Luca radicalizza la sua poetica verso una pratica artistica come esperienza collettiva e politica, dall’altra Continuum, vicino alle tematiche lettriste e situazioniste, aperto ad una varietà di contributi internazionali (M. Caesar, R. Carpentieri, M. Bulzoni, L. Caruso, F. De Filippi, G. Desiato, M. Diacono, S. M. Martini, M. Oberto, M. Persico, F. Piemontese, G. Polara, G. Ricci, P. Vicinelli, E. Villa), segnato da un’esibita radicalità nella scelta degli strumenti d’intervento. Caratterizza Continuum la poetica del sabotaggio della funzione autoriale cara a Luciano Caruso.
“E/MANA/AZIONE”, rivista a circolazione privata pubblicata tra il ‘76 e l’81, si auto definisce un diario in pubblico liberamente riproducibile che conta su una redazione aperta che può variare da numero a numero che chiunque può realizzare concordandolo con gli altri componenti. La rivista ribadisce il valore politico della militanza culturale, ma è consapevole della sconfitta vissuta dalle istanze di rinnovamento su entrambi i fronti all’inizio del nuovo decennio. In una lettera a Caruso, Martini parla della necessità di riaffermare, a fronte delle spinte conservative, la “festa poietica” che nel ‘68 ha iniziato a destrutturare il reale. Il che è coerente con la posizione elaborata dal gruppo fin dagli anni ‘60 riguardo al “gesto poetico” (Caruso), compresi i canali alternativi di diffusione entro i quali era esperito (A.L.C., “E/MANA/AZIONE”, marzo 1980). Rimane intatta la polemica verso le conventicole affiliate alla grande editoria e l’ambizione ad elaborare per via della poiesi la possibilità di una nuova soggettività, che rimanda al tema dell’arte totale caro ai dadaisti e ripreso da lettrismo e situazionismo. Il che dovrebbe dimostra come il testimone dell’avanguardia possa essere ripreso in ogni dove, in barba al refrain sul suo esaurimento. Se vi è una lezione da conservare dei napoletani è che l’impegno non è mai separato dalla ricerca segnica; il che garantisce da posture declamatorie e invettive a rischio banalità, riscontrabile in alcune manifestazioni dell’artivismo, utilizzando la definizione che Vincenzo Trione ha dato della recente produzione di arte politica. Il rischio è che si determini una nuova maniera tanto in grado di scaldare i cuori, quanto foriera di un inedito moralismo; una sorta di birignao dell’impegno al quale si attaglierebbe mutatis mutandis la polemica degli avanguardisti dei primi anni ’60 verso la falsificazione prodotta dal neorealismo. Più utile volgere l’attenzione ad alcuni grandi isolati, estrani alla declamazione, ma impegnati a rendere in nuove visioni la complessità del reale; tanto per fare nomi, Mullican, Mc Queen, Kapoor, Viola. Forse l’alternativa al glamour neo pop di Koons, Hirst e agli Nft, non va cercata nell’estetica del marginale, nella smaterializzazione, nell’azione teatrale, nel lavoro di gruppo, ma in una pratica rivoluzionaria quanto mai altre: la poiesi, appunto.
Paolo Allegrezza