Prima di Dante, prima di Giotto, prima di qualunque idioma letterario o artistico, Palermo era già una città trilingue, latina, greca e araba.
Il triangolo della Sicilia, nel cuore del Mediterraneo con i lati rivolti all’Europa, all’Africa e all’Asia non poteva che essere luogo di diffusione e confronto di culture. Per i mercanti d’oriente, per gli intellettuali arabi, per i latini era un sogno arrivare per nave nella conca d’oro di allora, in questo mare di verde lucente. Dobbiamo andare ai quadri di Antonello da Messina per ritrovare quel verde smeraldo.
Nessuno amava di più questa terra di Federico Hohenstaufen (1194-1250) questo sacro romano imperatore parlava tutte le lingue del Mediterraneo, oltre al tedesco e aveva una guardia del corpo musulmana, coltivava il Diritto Romano, cacciava coi falconi e amava le arti. La Sicilia ha storicamente una vocazione all’internazionalità. Un esempio emblematico della multiculturalità siciliana è la montagna dei siciliani, il cono fiammeggiante dell’Etna. I popoli dell’isola la battezzarono Mongibello, mettendo insieme, con squisito opportunismo “politically correct”, il termine latino-italiano “monte” e quello arabo “gebel”. La Sicilia è una regione fondamentale per testimoniare quanto sia importante la contaminazione, l’ibridazione culturale per progredire.
Un esempio?
Il Duomo di Monreale, il capolavoro più alto del Medioevo siciliano. Sta lì, splendido di marmi preziosi e di mosaici lucenti, il secondo sistema iconografico più didatticamente efficace del periodo.
Già dal Chiostro è uno speculum mundi, una vasta rappresentazione di leoni, lupi, ciclopi, volpi, Ercole. Un mistico irlandese scriveva che ogni cosa di questo mondo, sia un libro o una pittura ci viene data sotto forma di simbolo. La simbologia medievale è incredibile, il leone ad esempio è il diavolo, ma è anche Cristo, perché c’era una leggenda scritta da Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, tramandata come vera nel medioevo, secondo cui, quando i leoncini nascono, sono morti. Però, racconta Plinio, arriva il leone papà e soffia su di loro e ritornano in vita. Così il leone diventa simbolo di Cristo che porta la salvezza e fa risuscitare.
“L’arte è la storia che si fa figura e la storia è contaminazione, mutazione, compromesso ed infine accordo tra culture diverse.”
Guglielmo II d’Altavilla (1153-1189) riuscì ad edificare una fabbrica romanica d’Occidente.
È una chiesa latina con una grande navata tripartita da sontuose colonne imperiali romane di spoglio.
È greco-bizantina nell’impianto del vasto transetto, fornito di protesis che era una sorta di sagrestia di comodo impiego, e di diaconicon che ospitava i diaconi per il servizio liturgico, tipiche costruzioni architettoniche della chiesa ortodossa.
È araba nei tipici archi ogivali e nella profusione di raffinati repertori cromatici privi di icone.
È totalmente costantinopolitana (gli specialisti si riferiscono alla dinastia di Emanuele e Alessio II, autocrati di Bisanzio e dell’Impero Romano d’Oriente nel XII secolo) nei quasi diecimila metri quadrati di “pittura in mosaico”. In essi si raccontano l’Antico Testamento, l’attesa, la vita di Cristo, la testimonianza degli apostoli Pietro e Paolo. Ed infine l’apice figurativo è l’immagine di Gesù, rappresentato nella gloria dell’ultima epifania. Gesù pantocratore e giudice dominante nel catino absidale, vero e proprio golfo mistico, sintesi teologica di tutto il percorso, grandiosamente fuori scala, l’alfa e l’omega, il Signore del Tempo e della Storia, atteso e prefigurato dalla profondità dei secoli. Amen.
Un ettaro di mosaici per raccontare la storia della salvezza! Perché?
Re Guglielmo era un raffinato politico. Sapeva che era importante per il regno del Sud il sostegno della Chiesa di Roma. Per questo volle che i suoi mosaicisti raccontassero nel transetto, nello spazio destinato ai presbiteri e alla consacrazione eucaristica, le storie della vita di Cristo ma anche, sulle pareti del diaconicon e della protesis, la vita e le opere, rispettivamente, di san Pietro e di san Paolo, essendo l’uno e l’altro le colonne portanti della Chiesa romano-cattolica. Era questo il suo modo di riconoscere e affermare la sottomissione della corona al primato spirituale del papa.
Sapeva anche, re Guglielmo, di essere il sovrano di uno Stato multiculturale e multietnico, in parte latino, in parte greco, ma anche, in larga e decisiva misura, arabo-musulmano, solo in parte cristianizzato. Perciò intervengono maestranze di diversa formazione, etnia e cultura (botteghe latine, greche, arabe o arabizzanti) chiamate a lavorare, tutte insieme, in un edificio sacro che doveva essere cappella palatina, cioè luogo consacrato alla gloria del potere sovrano. Il fattore della Koinè, la lingua condivisa da tutte le varie botteghe che lavorano a Monreale era il greco.
Tra i mosaici ce n’è uno un po’ divertente e un po’ imbarazzante.
Ad un certo momento si vede re Guglielmo II, in ginocchio di fronte alla Vergine con una scritta latina, e rivolgendosi alla Madonna le dice: “pro cunctis ora, sed pro rege labora.” (lib. trad.: “Prega pure per tutti, ma ricordati di me che sono il Re!!”)
Il rapporto dell’autocrate con la divinità è diretto, non ammette intermediazioni. La Madonna facesse il mestiere suo di proteggere il sovrano!
In un altro mosaico il re, abbigliato come un basileus bizantino, è rappresentato mentre si fa incoronare da Cristo. Quasi che la regalità fosse una consacrazione sacramentale, assimilato agli apostoli. Come l’imperatore Giustiniano nel celebre mosaico di tanti secoli prima nel San Vitale di Ravenna.
Per re Guglielmo, duttile ma pragmatico, come per gli imperatori di Bisanzio, come per gli zar ortodossi di Mosca, politica e religione devono fare una “sinfonia”, devono suonare insieme, parlare con la stessa voce, per la salvezza, sia spirituale che mondana, dello stato e della società.
Lo stile dominante nei maestri attivi nel cantiere è colto, raffinato, “palaziale”, cioè di una cultura figurativa destinata alla corte imperiale e ai palazzi, sacri e profani, del potere. Anche perché quella del mosaico era un’arte difficile e straordinariamente costosa che solo le élites potevano permettersi. Specialisti da Costantinopoli, ma forse anche siciliani, eleganti, ma vivaci.
E poi ci sono le didascalie, scritte in un latino che già trascolora nella lingua volgare. “Extende manus tuas a puero” (“Tieni lontane le tue mani dal ragazzo”) ordina l’angelo ad Abramo che sta per sacrificare il figlio. È già italiano!
“Cessato diluvio Noe extradi fecit bestias ab arca” (“Finito il diluvio Noè fece uscire le bestie dall’arca”). Diluvio dice! La lingua della Chiesa sta sciogliendosi per diventare idioma romanzo d’Occidente. Una chiesa è un libro che può parlare ed insegnare a diventare internazionali, il destino è nella contaminazione culturale.