Dove sta la particolarità delle Vele di Scampia, in particolare nel senso della loro demolizione?
Sta in buona parte nei suoi fondamentali di progetto e nella loro genesi e ispirazione ideale e ideologica.
“Il modello case popolari proposto per le Vele sulla spianata di Scampia nella sua tecnologia complessiva è collocato in un impianto urbanistico che è stato notoriamente un omaggio al movimento partigiano d’Italia contro il regime degli anni Venti e Trenta del Novecento. Non un caso infatti, le strade che permettono lo scorrere del traffico automobilistico attorno alle Vele portano con sé i nomi e i cognomi di personaggi storici che hanno contribuito alla Resistenza italiana, nonché i nomi con cui si ricordano gli eventi storici per questo movimento. E più ci si avvicina alle strutture più eloquente e significativo è il ricordo di quegli anni, di cui, la sua massima espressione è proprio il lungo, circolare Viale della Resistenza.”
(https://www.storiacity.it/guide/330-vele-di-scampia)
Questo aspetto, praticamente sconosciuto o sottovalutato, è quello che mi pone molti dubbi sul fatto che oggi si dichiari, a destra come a sinistra, il fallimento del progetto di Franz di Salvo, legittimandone la demolizione perché considerato addirittura criminogeno e strumento contrario ai fini della convivenza civile.
Fortunatamente, a non avere certezze così solide, non sono il solo:
“Non abbattete le Vele di Scampia”: parte la raccolta firme”
“La petizione, partita da pochi giorni, vede al momento un centinaio di firmatari. Tra loro Luigi de Falco (ex assessore all’Urbanistica di de Magistris) dell’associazione Italia Nostra, il professor Aldo Capasso, Vito Cappiello, l’architetto Massimo Pica Ciamarra.“
(Non abbattete le Vele di Scampia: parte la raccolta firme)
L’appello, del marzo 2018, non è servito – la Vela Verde dal 20 febbraio è in fase di demolizione – ma almeno vorrei che servisse ad evitare entusiasmo fuori luogo per un progetto che, secondo me, poteva essere non solo salvato e rigenerato, ma costituire un punto d’orgoglio dell’architettura internazionale.
Nello screenshot seguente, tratto da Napoli Today, nella sequenza di presentazione degli articoli, credo si sia involontariamente rappresentato non il fallimento del progetto delle Vele, ma quello dell’architettura italiana degli ultimi quarant’anni, caricatura dello storicismo in tutte le salse possibili e immaginabili.
Un processo lungo e lento, involutivo e reazionario, che ha portato le persone dalla possibilità di vivere ai confini più prestigiosi della storia dell’architettura (foto in alto) nel più stupido, banale, scontato e ‘borghese’ degli scatoloni della speculazione immobiliare (foto in basso) dove sono stati intruppati i reduci del presunto fallimento nell’illusione di cambiar loro la vita.
(da Napoli Today)
E badate bene, tutto questo è successo grazie alle fanfaronate accademiche provenienti dalle più prestigiose università italiane, che negli anni hanno svuotato di risorse, di idee, di progetti le uniche opere capaci di realizzare le grandi ambizioni e i grandi sogni della civiltà della convivenza e della giustizia sociale, rivalutando vizi e devianze tipiche delle peggiori società mercantili pur di rivendicare un’autonomia formale apologetica da usare come arredo sociale.
Nel fanfarume post-ideologico del ‘pensiero debole’ si sono, infatti, infilate tutte le baronie che chiedevano vendetta dopo la rivolta sessantottina, ritirando fuori dal ripostiglio della storia l’intera liturgia formale e psicologica che ha permesso a molti accademici, nuovi e vecchi, di riprosperare tra gli stili, le discipline e le teorie più conservatrici. Dalla strada novissima al razionalismo milanese fino al regionalismo, ridotto ad un localismo becero, questo è il grande peso di cui gli intellettuali di una certa sinistra devono farsi carico e dichiararsi responsabili.
Di fatto essi sono diventati complici e padri spirituali delle peggiori destre sovraniste attuali.
Non c’è stupore quando, tra i detrattori delle Vele di Scampia, ci troviamo la politica in modo trasversale. Una politica, soprattutto, incapace di capire le ragioni dell’architettura vista sempre e solo come serva del potere o dell’immagine di esso.
Anche oggi le responsabilità per aver abbandonato qualsiasi vocazione liberale e sociale capace di ispirare progetti socialmente ambiziosi non risparmia nemmeno gli ambiti di quella cultura che pensa di contare molto.
Così titola Domus di David Chipperfield:
Le Vele di Scampia, “un simbolo del fallimento del modernismo”
Le foto di Tobias Zielony raccontano l’ambiente sociale e fisico dello storico edificio, “icona e simbolo del problema del crimine a Napoli”.
(Foto di Tobias Zielony)
Si tratta di un ottimo reportage fotografico che, per l’intensità delle immagini proposte, contraddice di per sé l’idea di fallimento e ispira in chi le guarda, almeno a me ha fatto questo effetto, uno stimolo profondo di metterci le mani e tirarne fuori almeno una speranza.
Tra gli entusiasti della demolizione non mancano nemmeno le voci istituzionali, che non evitano neppure l’inciampo politico:
“Erano gli anni del boom demografico. E già questa premessa ci dice che stiamo parlando di un altro mondo, di un’altra Italia. Erano gli anni Sessanta o giù di lì. L’esigenza di offrire una casa alle masse che dalle campagne e dal Sud si affrancavano dalla povertà alimentando i processi di urbanizzazione di quegli anni costituiva una micidiale occasione per i cultori del socialismo reale. Il nostro Paese era preda – inutile negarlo – di una cultura fortemente penetrata dall’ideologia comunista, un po’ in tutti i settori. L’architettura era forse uno degli ambienti di maggior esercizio di progetti e programmi “in linea” con le visioni di socializzazione derivate da un modello di vita e di aggregazione pensato più che da Marx, dai suoi epigoni in Russia, però quella che era ancora Unione Sovietica.”
(Guido Castelli – Presidente Ifel-Fondazione Anci)
Se Guido Castelli fosse un architetto non riuscirebbe a dire tante cavolate come quelle che ho citato. Egli saprebbe che chi progetta, e quando progetta, ha come modello ideale non la politica, o la sociologia o le idee sulla politica, ma l’architettura, alla quale ogni scelta deve rendere conto, al di là degli stimoli di cui essa si serve e non il contrario. Senza l’architettura nessuna teoria architettonica sta in piedi. Il problema insuperabile è che la teoria si può insegnare e l’architettura no; quindi la teoria può sbagliare ma l’architettura no.
La storia è piena di architetture sopravvissute alle sue teorie sbagliate. Ogni progetto, è vero, nasce con una funzione predeterminata e con soluzioni pensate per problemi specifici. Ed è vero che quando ebbe origine il progetto delle Vele, intorno agli anni ‘60, si aveva tendenza a riconoscere all’architettura facoltà terapeutiche che mai si sono effettivamente realizzate. La complessità della società contemporanea, infatti, non aveva ancora sfiorato quell’ordine ideale che faceva pensare alle classi sociali come una condizione stabile e perenne, pur nel ciclo della storia, che avrebbe dovuto assegnare a quelle minori lo scettro del governo dopo un processo di equiparazione sociale. Questa condizione ideale aveva suggerito la possibilità di assegnare un’abitazione, anche minima, a tutte le famiglie per rendere parimenti dignitosa ogni vita e vedeva nella ‘grandezza’ anche fisica del progetto la dimensione per non perdere nell’insignificanza ogni piccola cellula abitativa. Sfido qualcuno a dimostrarmi che questa tensione positiva non avrebbe affascinato qualsiasi architetto dell’epoca, se non altro perché investito della vanità del proprio ruolo.
Ora si dice che il progetto era sbagliato, portando a giustificazione il fatto che l’esecuzione non fosse conforme al progetto iniziale, e che tali cambiamenti, peggiorando irrimediabilmente il progetto, lo avrebbero destinato alla fine ingloriosa di questi giorni. Dico subito che, se in passato era stato un errore pensare che l’architettura avrebbe potuto da sola guarire i mali sociali, non vedo perché oggi possa ritenersi giusto pensare che, invece, riesca a procurarli, anche cambiandone alcuni presupposti.
Io non credo che l’architettura abbia doti taumaturgiche evidenti. Sono sicuro, infatti, che essa viva e vegeti al di là del proprio senso e dalla propria funzione e che questa virtù appartenga soprattutto a quell’architettura che ha cercato nella funzione il proprio statuto principale, evitando riferimenti ed ammiccamenti ad ogni tipo di rumore nostalgico.
Per questo ritengo che un processo di riqualificazione e rifunzionalizzazione avrebbe ispirato le menti più creative, disposte ad azzerare ogni riferimento al vecchio destino per riproporne uno del tutto nuovo.
Viviamo un’epoca di ripensamento importante dove il recupero ed il riuso sono il tema dominante anche nelle espressioni più ardite dell’arte contemporanea. Penso a Eugenio Tibaldi, non a caso vissuto e formatosi artisticamente per molto tempo proprio a Napoli, autore di rilievo internazionale particolarmente apprezzato da chi scrive. Marginalità e riuso sono gli aspetti che prescindono da una banale idea di bellezza e dalla relativa calma sociale nella quale la società mercantile ripone il suo ideale. Gli aspetti del reale oggi pretendono una rappresentazione completa, non esclusiva dei privilegi sociali e la condizione iconica di marginalità espressa dalle Vele di Scampia rappresenta lo scenario ideale per qualsiasi funzione collettiva le si voglia affidare: teatro, sede per uffici, museo, ecc..
Ovviamente, questa operazione di recupero e riuso non può avere l’ingombro delle rigide regole del restauro ma deve dare spazio alla contaminazione, compenetrazione, svuotamento e qualsiasi altro gesto architettonico che ridia respiro a un corpo nobile che ha necessità d’essere rianimato.
Dopo il ponte Morandi di Genova questa è stata un’altra preziosissima opportunità per mostrare al mondo le nostre capacità di recuperare il nostro prezioso passato, mettendo in atto non solo sofisticate tecniche di restauro ma anche capacità di lettura e riproposizione di linguaggi contemporanei. Una capacità che ci avrebbe rimesso in cima al mondo dell’architettura e dell’ingegneria.
Concludo con un articolo di Roberto Saviano su Repubblica, che ci dice delle vele nel suo aspetto etico sociologico e che mi limito a riportare qui nella parte in cui esprime concordanza col mio pensiero. Invito, però, a leggere tutto l’articolo per capire meglio le relazioni che rendono del tutto indipendenti le responsabilità dell’architettura dalla sua convivenza con la criminalità organizzata.
“Le Vele non sono responsabili del male di Scampia. Ma perché dovrebbero esserlo?
Furono costruite tra il 1962 e il 1975, le progettò Franz Di Salvo, un geniale architetto che fu animato, nel disegnarle, dallo spirito architettonico del tempo, l’Existenzminimum. Ossia provare a ridurre l’appartamento — dove si sarebbe svolta la vita — al minimo indispensabile; l’alloggio, ricavato quindi con una spesa costruttiva contenuta, doveva avere come perno principale dell’esistenza abitativa il “fuori”. La vita doveva svolgersi fuori, collettivamente. Napoli era già così, era il simbolo di questa articolazione abitativa. Di Salvo progettò le Vele con il preciso intento di ricostruire lo spirito dei vicoli in un condominio. Ballatoi sospesi nel vuoto su cui insistevano le scale che portavano agli appartamenti: erano come vicoli sospesi. Sbagliava, Di Salvo? Beh, se vedete le Vele gemelle di Villeneuve-Loubet, in Costa Azzurra, sono tra gli appartamenti più ambiti d’Europa. Certo, direte: si trovano in un luogo turistico, dinanzi al mare e con altro tipo di abitanti. Eppure era una zona degradata quando partì il progetto abitativo, bisognava portarci molte persone per far rinascere quel frammento di terra abbandonato e poterle far sentire immediatamente comunità. Così fecero. E funzionò.”
(Roberto Saviano su Repubblica)