(Nell’immagine, Notre Dame nel 1840 circa, prima del restauro di Viollet-le-Duc)
Vanno a fuoco guglia e tetto della cattedrale di Notre Dame a Parigi.
Va a fuoco parte d’un monumento di grandissimo valore storico, simbolico, sentimentale, narrativo. Sul valore artistico, invece, nutro parecchie perplessità.
La parte incendiata e distrutta fa parte del progetto di restauro che Viollet-le-Duc attuò nella metà del milleottocento.
“La grande cattedrale, allora come oggi, era il simbolo di Parigi. Ma dopo le spoliazioni della Rivoluzione era diventata il terreno di battaglia di continui atti vandalici e cadeva letteralmente a pezzi. Per celare il degrado allo sguardo dei fedeli e dei cittadini si arrivò a coprire le pareti della navata con le bandiere che la Grand Armée riportò trionfante dalla battaglia di Austerlitz, orgoglio della nazione e momento più alto dell’età napoleonica. Si formò, tra le polemiche, un movimento di opinione che propose di abbattere la struttura.
In prima fila per salvare la cattedrale c’era lo scrittore Victor Hugo che da poco aveva pubblicato il suo romanzo “Notre-Dame de Paris” (1831). Petizioni ed appelli si susseguirono. Finché Luigi Filippo, nel 1842, ufficializzò con un atto del governo la volontà di dare il via al restauro.
I lavori durarono più di venti anni. Nei primi dodici, il ventottenne Viollet-le-Duc fu affiancato dal più esperto Jean-Baptiste Lassus.
Nel grande cantiere, Eugene intraprese ogni tipo di sperimentazione. Ripristinò sia i muri portanti che lo straordinario apparato scultoreo.
Nel rifacimento della sacrestia vennero impiegati alcuni tra i principali maestri di scalpello e orafi parigini, come Durand, Monduit e Geoffroy-Dechaume, che negli anni seguenti lavoreranno ancora con Viollet-le-Duc nel recupero della cappella di Saint Denis.
Molte figure dei tre portali della facciata furono rifatte ex novo.
“La serie dei “Re di Giuda”, distrutta durante la Rivoluzione, fu ricostruita per intero. Le lunette scalpellate vennero completate. Cambiarono i paramenti. Pinnacoli e contrafforti furono sostituiti. I più abili vetrai di Francia furono coinvolti per riprodurre l’affascinante policromia dei tre grandi rosoni.
Il restauro di Notre Dame in stile gotico fu così capillare e presentò così tanti cambiamenti rispetto alla chiesa medievale che perfino Napoleone III, ad un certo punto, si allarmò. Nel maggio 1856, l’imperatore confidò, con aplomb regale, le sue paure a Prosper Mérimée: ”Sembra che Viollet-le-Duc, distruggerà Notre Dame…”.
Era, più o meno, quello che temeva la maggioranza dei parigini. Soprattutto quando si cominciò a parlare di una guglia che prima non c’era. Una freccia di ghisa alta 45 metri e pesante 750 tonnellate, innalzata verso il cielo, proprio all’incrocio tra la navata principale e il transetto. Oltretutto lontanissima dai modelli del XIII secolo: per la sua realizzazione Viollet-le-Duc si ispirò alla “flèche” ottocentesca della cattedrale di Orléans.”
(fonte www.festivaldelmedioevo.it)
Chi conosce le teorie Viollet-le-Duc può capire quanto di falso storico ci sia nelle sue interpretazioni d’un medioevo in buona parte allegramente reinventato. Chi per anni ha sostenuto il restauro critico di Brandi o quello integrale di Dezzi Bardeschi – ed io sono tra questi – ha difficoltà a scorgere alcunché di valore artistico nella copia discrezionale di elementi formali tratti fantasiosamente dall’epoca gotica. Al personaggio, infatti, si riconosce universalmente un valore politico prima che artistico, avendo egli contribuito a ricompattare lo spirito nazionale francese intorno ad un mito identitario. I suoi interventi, come Carcassonne, in tutta la Francia raccolgono tutt’ora l’ammirazione di folle di visitatori:
“La prova d’autore di Viollet-le-Duc si realizzò a Carcassonne, la meravigliosa cittadella fortificata edificata su una collina nel sud-ovest della Francia, tra Narbonne e Tolosa. La città, con la sua doppia cerchia di mura e le sue 53 torri, dal 1997 compare nella lista dei Patrimoni dell’umanità dell’Unesco. Ma nella prima metà dell’Ottocento versava in uno stato pietoso: le torri e le case cadevano a pezzi e la popolazione si era trasferita da tempo nella città bassa. Il governo pianificava la totale distruzione della Cité. Prosper Mérimée, ispettore generale dei monumenti storici, lottò a lungo per cambiare un destino che appariva segnato. Ci riuscì e affidò il restauro a Viollet-le-Duc, che già dal 1844 seguiva i rifacimenti della chiesa di Saint-Nazaire e aveva studiato il sito archeologico con l’aiuto di rilievi topografici e centinaia di schizzi e di appunti sulla storia medievale dei luoghi. Il complicato restauro iniziò nel 1853, grazie a un finanziamento imperiale. Eugène non vide mai la fine dei lavori, che si interruppero più volte per mancanza di denaro e terminarono addirittura 57 anni dopo, nel 1910. Il risultato divide ancora la critica. Il restauro, in senso stretto riguardò soltanto il 30 per cento degli edifici, con il castello, la cattedrale di Saint-Nazaire e l’omonima porta fortificata. Anche perché Viollet-le-Duc per valorizzare la bellezza delle due cinte fortificate, fece spazzare via tutte le miserabili abitazioni che nel corso dei secoli erano state costruite addosso alle mura. La sua prima preoccupazione fu quella di salvare le torri. Insieme alle tante merlature fece ricostruire le coperture coniche dei tetti con l’ardesia utilizzata a piene mani nei castelli del nord ma sconosciuta nel sud del Paese. Replicò alle durissime critiche sostenendo di aver trovato nella città diroccata dei resti di ardesia. E affermò che secondo i suoi studi, dopo la crociata contro gli albigesi e la conquista di Simone di Monfort, buona parte di Carcassonne venne ricostruita ad imitazione delle città fortificate della Francia settentrionale. Lo sviluppo delle ferrovie, nell’arco di qualche decennio determinò la fortuna turistica della città: i più ricchi iniziarono ad arrivare già prima dello scoppio della Grande Guerra. Oggi, ogni anno, la città accoglie due milioni di visitatori ansiosi di perdersi, come Viollet-le-Duc, in un Medioevo che forse non è mai esistito ma che fa ancora sognare.”
(fonte www.festivaldelmedioevo.it)
Non starei quindi a parlare d’un’opera d’arte per quanto riguarda la guglia e il tetto bruciati di Notre Dame.
La domanda, quindi, è: se si è consentito a Viollet-le-Duc d’inventarsi una copertura e un pinnacolo senza nessun riferimento all’origine del monumento e nessuna coerenza con le teorie stesse dal medesimo sostenute, perché dovremmo perpetuare un inganno come se si trattasse d’un originale? Un falso storico, benché storicizzato a sua volta, non può diventare un originale.
Quando si parla di falsi in architettura, occorrerebbe aprire un altro capitolo.
La tesi dei sostenitori del falso storico si sostiene sul fatto che un’opera di architettura non sia mai eseguita, come un quadro, dal suo stesso autore. Ciò la priverebbe della gestualità che la renderebbe unica, aprendo la possibilità di riconsegnare fedelmente l’opera all’infinito, semplicemente rifacendone le forme. Così avviene per i libri, per esempio.
Ma al di là della considerazione che il tempo che passa lascia le sue tracce nella materia e non nella forma, questa concezione regge se consideriamo le opere d’arte come oggetti e non come concetti. Quello che ammiriamo dal punto di vista artistico in un libro non è il suo aspetto materiale, la sua fattura, ma ovviamente il suo valore letterario. Così in architettura, non dobbiamo ammirare la sola forma che la determina, in quanto oggetto architettonico, ma soprattutto lo spazio che essa definisce e i suoi rapporti sia interni che esterni con il luogo che la contiene. La questione, quindi, non riguarda più lo stile e la sua aderenza al contesto apparente, ma concerne la sua capacità di creare una nuova condizione ambientale, la stessa che Viollet-le-Duc intese proporre imponendo una guglia mai esistita in passato.
La mia opinione, quindi, è quella di chi prende le distanze dal dov’era e com’era. Credo che la cattedrale sia salva per i suoi elementi fondamentali: muri, contrafforti e torri. Questa potrebbe essere l’occasione per rinnovare nuovamente un monumento che appartiene al corpo di Parigi, come la Tour Eiffel, e che ne rappresenta icona, storia e mito. Sarebbe per me molto più interessante se si reinventasse una nuova condizione ambientale, magari prescindendo da guglie e spioventi.