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Da Buckminster Fuller a Ratti

Richard Buckminster Fuller, nell’esposizione universale e internazionale di Montréal del 1967 stupiva il mondo con una grande cupola geodetica in acciaio e vetro.
Per l’architettura erano anni di grande fecondità creativa e l’occasione delle fiere universali proseguiva il percorso di ricerca e sperimentazione iniziato da più d’un secolo con la prima esposizione di Londra del 1851 e la costruzione del Crystal Palace, opera dell’architetto Joseph Paxton.
Nel 1889 la sperimentazione proseguì con l’audace torre di ferro di Alexandre Gustave Eiffel a Parigi, che avrebbe dovuto essere abbattuta, nei vent’anni successivi, in seguito ad un accordo tra i costruttori e la comunità parigina intollerante verso l’ingombrante invenzione. Ma, vent’anni dopo, la torre di ferro persuase i parigini e tutti oggi possono ancora ammirare quella che è diventata l’icona della capitale francese.

Queste sperimentazioni videro impegnati nel tempo i migliori talenti. Uno su tutti. Nel 1939 Alvar Aalto, diventato ormai noto tra gli architetti di fama internazionale, in occasione della fiera universale di New York realizzò la sua “struttura sinfonica”.
Scriveva Aalto: “Ho pensato ad un padiglione finlandese, che comporrebbe una coerente dimostrazione culturale, con i materiali e gli aspetti spirituali uniformemente incastrati per formare una singola immagine. Voglio rendere chiaro che una coerente immagine materiale/culturale, è più utile che un commercio male organizzato. Questo principio di unità non è solamente una futile dottrina estetica, ha una applicazione pratica, come la musica, ha una struttura sinfonica; ha il potere di rompere l’immaginazione e formare una base per nuove informazioni e nuove influenze.”(1)

Il piccolo padiglione finlandese ebbe un successo clamoroso, dovuto anche al fatto che, nella calda estate newyorchese, era l’unico luogo accessibile della fiera dove le persone potevano trovare un rilassante luogo d’ombra e di benessere fisico e psicologico.
L’architettura organica del genio finlandese entrava ufficialmente nella storia dell’architettura.

Nel 1942 anche l’Italia vuole la sua esposizione (la seconda, in patria, dopo quella di Milano del 1906, concomitante con l’apertura del tunnel transalpino del Sempione) dove Marcello Piacentini potrà dar vita al nuovo quartiere dell’EUR di Roma. La fiera non ci sarà per via del sopraggiungere della guerra ma resta, nel Palazzo della Civiltà Italiana, il segno evidente di un abbandono dell’alta ricerca tecnica e architettonica a favore della retorica e della propaganda. La distanza dal rivoluzionario padiglione finlandese organico di AAlto diventa incolmabile e purtroppo non basterà un secolo a sgonfiare la boria italica d’una presunta superiorità culturale, edificata più sulla memoria umanistica e letteraria che sulla concreta, antropica e dura scrittura architettonica, conquistata dalle avanguardie dei primi del novecento.

Nel 1958 l’Esposizione Universale è a Bruxelles. Per l’occasione viene costruito l’Atomium, un monumento in acciaio che rappresenta i nove atomi di un cristallo di ferro ingrandito 165 miliardi di volte. Questo è forse l’ultimo atto di un processo che dal Palazzo di Cristallo di Paxton cerca nelle fiere internazionali lo strumento mediatico per comunicare al mondo il grado di civiltà e di conoscenza di ogni paese. L’aspetto mercantile è marginale rispetto alla comunicazione che vede, nella capacità di utilizzare la tecnica, la sintesi del progresso della scienza e dell’industria di ogni tempo.

Oggi, che la conoscenza non si esprime più nelle cose materiali ma nei bit della comunicazione, possiamo capire il regresso che negli anni ha reso datati, superflui e polverosi questi eventi, che sono diventati dei costosi parco giochi a tema, estemporanei, nei quali la capacità di stupire non fa più affidamento sui virtuosismi delle costruzioni ma sulle immagini e le trovate pubblicistiche. È così che anche le occasioni dove l’architettura dovrebbe rivendicare la propria autonomia vengono trascurate a vantaggio di trovate mediatiche d’uso popolare, affidando il messaggio non più alla capacità di governare eventi complessi ma ai peggiori luoghi comuni e alla peggiore retorica nazionalista.
E qui arriviamo all’ultimo padiglione italiano per Dubaj 2020, progettato da Carlo Ratti e Matteo Gatto, di cui ho già scritto su questo giornale. Se nel padiglione Italia dell’expo 2015 di Milano, progettato dallo studio Nemesi, un minimo di ricerca architettonica era interpretata da vibranti pareti sperimentali in cemento, detto che queste, sinuose e scomposte, rivestivano incoerentemente una banale struttura semplificata staticamente e ricondotta a schemi trilitici, nel progetto di Dubaj il messaggio principale è stato affidato a tre scafi ribaltati che dovrebbero costituire la copertura d’un capanno commerciale con tanto di propaganda della bellezza italica stampata sulle pareti. Siamo lontani anni luce dalla sensibilità di AAlto e non voglio immaginare il clima che i visitatori troveranno all’interno di un involucro traslucido esposto al sole d’Arabia.

Riciclo delle materie prime, benessere ed ecologia, forse dovrebbero fare i conti con un pensiero un po’ più profondo e di sostanza architettonica, lasciando al marketing dello smart system spazi meno materici e costosi, occupandosi, invece, di ciò che l’architettura dovrebbe fare per statuto: contribuire al benessere fisico e psicologico delle persone.

Note:
(1) – In questo scritto, l’architetto rende chiaramente la sua idea di voler costruire un edificio equilibrato, soprattutto negli elementi cosiddetti “materiali” e negli “aspetti spirituali”.
Purtroppo data la sua giovane età non riesce a realizzare il suo progetto con il suo primo padiglione di Parigi, che aveva peraltro visto grandi successi, ma non tra i capi dell’industria che non lo trovavano adatto per promuovere il commercio. Il concorso “New York World’s Fair” venne bandito nella primavera del 1938, ma Aalto decise in un primo momento di non prendervi parte.
In seguito, quasi ossessionato da questa competizione, decise di partecipare e sottopose due schemi, che ottennero il primo ed il secondo posto.
Nel 1939, due anni dopo la ‘sconfitta’ di Parigi, quando ormai la fama di Alvar Aalto cominciava ad essere quella dei più grandi architetti, a New York gli venne data la libertà di creare la sua “struttura sinfonica”.
A New York la Finlandia si è potuta permettere di affittare solamente una stretta e alta cabina, che, proprio per le sue proporzioni, metteva in mostra e esaltava la provocazione di come si poteva allargare la visuale dello spazio, poiché, seguendo le parole dello stesso Aalto: “lo sviluppo delle libere forme architettoniche era necessario”.
Proprio le limitazioni della cabina dimostrarono l’efficacia del progetto, e fu data ad Alvar l’autorità di organizzare il padiglione come un gesamtkunstwerk, che chiamò “esibizione organica”.
Non era solo l’architettura sotto il suo controllo, ma anche i suoi contenuti tematici.
Il primo abbozzo del padiglione mostra un rettangolo disegnato con forma irregolare, contenente una sola linea ondulata che, già presente in altri schemi, diviene ora il motivo guida di una sensazionale semplicità e potenza. Il padiglione di New York è entrato nei libri di storia sulla forza dell’immagine del grande muro ondulato. Mentre questa era incontestabilmente la caratteristica disegnata per fare la più grande impressione al visitatore, il padiglione era lontano dalla classica fattura per questo tipo di edifici, era la “struttura sinfonica” che Aalto voleva già raggiungere con il padiglione di Parigi. Il muro ondeggiante era sospeso diagonalmente attraverso la lunghezza della cabina, collegando l’entrata alle porte d’uscita. Costruito in tre stadi, facendo fotografie più visibili e comprimendo visivamente lo spazio, la sua forma ondulata gioca contro la dritta diagonale della terrazza di fronte. La proiezione di una capanna fu appesa sopra la mezzanina cinema/ristorante.
Una supplementare esibizione dello spazio venne creato all’altezza del primo piano dietro il muro sospeso. Gli spazi di servizio vennero adattati come i pochi tra le forme libere interne al corpo ed il muro esterno, distruggendo effettivamente ogni cenno della cabina che lo conteneva. Il muro dritto sopra la mezzanina fu visivamente dissolto da un immensa fotografia aerea di un paesaggio lago e isole tipico della Finlandia, e simili immagini vennero poste sul livello superiore del muro sospeso.
(Padiglione finlandese per la Fiera Mondiale di New York – di S. Giubbarelli)

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