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Storia e Critica

A proposito di conservazione

Il recente conflitto tra architetti e storici dell’arte in relazione agli interventi su beni storici rilevanti ripropone il tema della conservazione dei monumenti. Un tema che ha attraversato buona parte del secolo scorso e che sembrava ultimamente abbandonato in un conciliante compromesso nel segno dell’indeterminatezza. Senonché gli eventi, che sono indifferenti alle insofferenze degli umani, si ripresentano con le loro questioni ad ogni occasione in cui la vita li chiama in causa.
Cercare di fare chiarezza per riprendere un dialogo con la ragioni più pertinenti e attuali appare quindi necessario oltreché utile.

Partiamo da un dato reale. Gli storici si occupano di persone e cose morte e gli architetti di persone e cose vive. Già questa distinzione dovrebbe segnare un confine semantico preciso quando si parla di conservazione. Ai primi tocca di studiare le salme; ai secondi, oltre i vivi, i feriti da tenere in vita.
Nei primi la conservazione riguarda il mantenimento di uno stato temporale al di fuori del proprio tempo, uno stato che si può definire generalmente “musealizzato”.
Il museo, infatti, è quel luogo fisico dove si può vivere una sospensione dello spazio-tempo: ci si libera provvisoriamente della contingenza e ci si dedica alla osservazione meditata di fatti appartenenti ad epoche od eventi passati. I musei, per definizione, raccolgono oggetti di grande valore estetico o mnemonico. Civiltà, culture, usi, costumi ed utensili, a cui l’interesse artistico o/e antropologico ha dedicato un’attenzione degna d’essere chiusa dentro uno luogo preciso, costituiscono oggi buona parte di quello che chiamiamo patrimonio culturale del paese.
Buona parte dei musei, peraltro, stanno all’interno di edifici storici, i quali a loro volta costituiscono patrimonio culturale anch’essi. Contenitore e contenuto, quindi, vengono a avere la stessa natura ed è convinzione, per lo storico, che lo stesso protocollo conservativo destinato al contenuto debba valere anche per il contenitore. Non è raro, infatti, che per difendere l’intangibilità d’un palazzo antico si ricorra al confronto con un dipinto o un’altra opera d’arte, scordando che le città, costituite da edifici fortemente connessi col proprio tempo, non beneficiano di quell’apnea esistenziale che può permettersi un oggetto isolato dal mondo reale (Duchamp).
La città, quella storica in particolare, con tutti gli edifici che la compongono, non è un museo, perché sta qui, adesso, viva e realmente compromessa con la realtà contingente. Agire sulla conservazione della città adottando gli stessi criteri del restauro non può che produrre una condizione caricaturale di un passato del tutto immaginario. L’assenza di condizioni puntuali e coerenti con le varie epoche che hanno trasformato la città, condizione questa che comporterebbe la rimozione di ogni interferenza funzionale all’interno degli edifici storici, riportando allo stato coevo ogni minimo dettaglio tecnologico, compromette con evidenza la rigorosa lettura delle architetture del passato le quali, proprio perché architetture, hanno necessità di essere frequentate e vissute nel presente. Nessuno vive in un passato che può solo immaginare.
Costringere le città ad accettare l’idea del restauro conservativo, un’idea fondamentalmente priva di valenza architettonica, soddisfa sicuramente l’ideologia della conservazione dal punto di vista dello storico, ma condanna l’architetto a prendersi cura dei morti trascurando i vivi. L’ossessione del degrado dovuto al trascorrere del tempo, se per l’architetto rappresenta sfida e motivo di stimolo per un rinnovamento che proprio il tempo costringe a concepire, per lo storico diventa un problema per il quale il tempo stesso, prezioso alleato delle sue teorie, dev’essere fermato. L’idealismo insieme con il concetto profondamente religioso di vita eterna, calati nella realtà della materia, nel corpo delle cose, non possono far altro che incontrare la delusione dell’impotenza nella quale l’unico rifugio resta la riproposizione farsesca del tempo perduto.

Al proposito voglio citare un testo del 2006 di Gianni Biondillo, di cui consiglio vivamente la lettura, che al proposito dice: «La città musealizzata è una città bloccata: è la fotografia di un ciò che “è stato”( R. Barthes, La camera chiara) e che non può più scambiare senso. La bestemmia della deperibilità, e quindi della peribilità, della materia viene ovviata dalla sua programmatica sostituzione. La distinzione operata dai restauratori fra arte e non arte diviene un’astrazione che si ritorce proprio sul sentimento estetico comune: ciò che non è “bello” può essere abbattuto; ciò che è “bello” deve essere programmaticamente ringiovanito: ma l’architettura che non può invecchiare è un’architettura già morta! Perché con essa la fruizione e lo scambio simbolico sono come fossilizzati; in questo senso le operazioni di restauro appaiono analoghe a quelle igieniste dei funeral homes americani: “Morte truccata e idealizzata con i colori della vita: l’idea segreta è che la vita è naturale, la morte contro natura – bisogna dunque naturalizzarla, impagliarla in un simulacro di vita. In tutto questo c’è dunque il rifiuto di lasciare che la morte significhi, assuma valore di segno.” (J. Baudrillard, Lo scambio simbolico) ».(2)

Nella testa dello storico l’idea della conservazione implica fortemente, quindi, quella del restauro. Conservare, per lo storico, significa togliere al tempo la sua azione (entropia) e significa soprattutto difendere l’oggetto di tutela dalle compromissioni del quotidiano. Il quotidiano è lo scorrere degli avvenimenti che fanno interagire la comunità col monumento, rendendolo parte viva della stessa.
Per lo storico, l’interesse non va ricercato nell’interazione ma nell’isolamento, nella possibilità di mettere ogni bene storico in un barattolo chiuso ermeticamente, fuori dalla portata della persone, affinché altre persone in futuro possano guardare dentro il barattolo, ma standone fuori perché il processo si possa ripetere all’infinito.

Per gli architetti, invece, la conservazione assume tutto un altro significato. L’architetto ha necessità di entrare nel barattolo, aprirlo e metterlo a disposizione del prossimo.
Tenere in vita un bene, infatti, dal suo punto di vista significa conservarlo al suo utilizzo e alla sua funzione sociale. Se per un edificio malato fosse necessaria una protesi, lo storico tenderebbe filologicamente a rifiutarla, perché in tal modo tradirebbe la linearità e coerenza del dato storico; oppure, nel caso peggiore, potrebbe ricostruirne la forma nella parte mancante, come a riportare il bene ad uno stato antecedente il danno. Difficilmente accetterebbe un innesto tecnologicamente idoneo a ridare una funzione all’edificio, di fatto postdatando la genesi dello stesso perché assurto a nuova vita. Per l’architetto la conservazione della forma non ha questo privilegio.
In ogni caso, per lui, non è la riproduzione della forma che determina l’esito della conservazione.
Questo è un punto importante e dirimente anche professionalmente.
Cito ancora Gianni Biondillo: « E’ il corpo, non più lo spirito, l’argomento dell’estetica contemporanea: “E’ per l’arte ragione di vita e di morte essere immersa con tutto il suo corpo e i suoi sensi nella natura, proprio perché il suo corpo vivente è lo stesso mondo delle materie. Essa si fa, prende corpo, nei suoni, nei colori, nelle crete e nei metalli, si fa manipolazione tecnica delle materie (secondo le singole tecniche artistiche, al limite una per ogni arte, ma anche una per ogni opera) nella misura in cui si fa selvaggia immersione intuitiva nei fiumi divenienti della natura.” (D. Formaggio, L’arte come idea). ».(2)
L’idea di “bellezza” fortemente idealistica è stata messa in crisi definitivamente dall’estetica contemporanea e dalle avanguardie del secolo scorso. Non si tratta di una crisi di metodo, di studio o di osservazione, o di una crisi che modifica i nostri modelli di percezione dell’arte, ma si tratta di una crisi che cambia il criterio stesso con cui l’arte ci comunica le sue valenze. Quando la pittura si fa materia e la scena si fa azione, assistiamo ad un rovesciamento dello statuto dell’arte, con tutte le conseguenze positive e negative che ogni rivoluzione comporta. Quando l’arte pittorica dichiara di avere un corpo, l’architettura ha un sussulto poiché non c’è architettura senza corpo, e la stessa non ci mette molto a capire che è il corpo, la materia, lo spazio (che è la materia dell’architettura), e non sono la forma e lo stile a determinarne il destino futuro.
Come prima conseguenza, l’ideale del “bello”, nel mondo della materia, precipita nel non senso; ovvero non ha più il senso che gli si è voluto dare nel significato classico. Definire “bella” una crosta di Burri non ha nulla a che vedere con l’idea di bellezza generalmente diffusa. Questo ormai pare chiaro e assodato, malgrado gli appelli alla bellezza “italiana” che ancora si leggono negli sproloqui di molti sedicenti architetti.
Se l’architettura, tutta, passata presente e futura, ha coscienza del proprio corpo può avere una precisa idea della sua conservazione. Può sapere con coscienza cosa è vivo e cosa è morto senza ricorrere allo strumento logoro della “bellezza”, o quello ancor peggiore della perfezione.
La storia stessa, che è il trascorrere del tempo, e non è il mutare delle forme, scrive i suoi giorni nella materia degli edifici, allo stesso modo di come la scrive sulla pelle delle persone.
Missione principale dell’architettura risulta quindi essere quella di occuparsi dell’architettura viva e di far rivivere senza soggezione alcuna le architetture che la storia ci ha consegnato, comportandosi da architetti e non da storici.

1 – Gianni Biondillo – La conservazione architettonica spiegata ai bambini 1 di 2/ – La Nazione Indiana
2 – Gianni Biondillo – La conservazione architettonica spiegata ai bambini 2 di 2/ – La Nazione Indiana

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