Anche il 2018 giunge al termine.
Un anno che marca la decade dall’inizio della crisi finanziaria ed economica che ha colpito il mondo intero, riducendolo nella condizione di crisi politica attuale.
Forse grave come quella che nel 1929 portò al disastro dei regimi fascisti e nazisti, questa crisi è stata certamente più lunga e logorante. Un logorio che, anno dopo anno, ha eroso persino i principi su cui sono nati gli stati liberali.
Gli intellettuali, anche questa volta, non hanno saputo capire il pericolo che le banali situazioni di disagio conseguenti la carenza di risorse possono produrre, lasciando scoperto il fronte più fragile ma ritenuto più scontatamente sicuro e acquisito: quello delle classi popolari; che per numero rappresentano la massa che può decidere in democrazia, sulle cui istanze si sono formate storicamente le democrazie moderne.
I principi di uguaglianza, fraternità, umanità, solidarietà che hanno scacciato re e tiranni ed hanno dato la possibilità ai figli di braccianti e muratori (questo era il popolo italiano fino all’ottocento) di essere parte del proprio destino e riscattare la propria condizione, oggi paiono essere scaduti, sacrificati sull’altare del più volgare egoismo identitario. Sarebbe qui complicato fare l’elenco delle situazioni di disagio – la situazione della disoccupazione giovanile in particolare, o l’azzeramento di interi settori produttivi come quello edile, che ha colpito non solo il mondo dell’architettura ma soprattutto gli individui professionalmente più fragili – ma se le si prendono in sintesi queste non toccano mai i principi del diritto individuale o della morale privata, ma riguardano esclusivamente le condizioni di mercato, che sono mutate anche in modo drammatico, con enormi ripercussioni che stanno tuttora amplificando le differenze sociali. L’economia, insomma, in una società in cui il denaro, e ciò che con esso si può fare, rappresenta l’unica misura di soddisfacimento comune, nei momenti in cui la necessità che muove il mercato passa da esigenze superflue a bisogni vitali, ecco che viene a cambiare totalmente i termini del confronto collettivo, mettendo a rischio proprio i fondamenti che hanno permesso all’economia di diventare egemone. Uno stato meno economo e più opportunista, nel senso delle pari opportunità, meglio aiuterebbe i cittadini e conseguentemente l’economia stessa. Voglio qui dire chiaramente che opportunità non vuol dire elemosina, come ha in mente questo governo.
Oggi il rischio è quello che, per celebrare la propria autarchia esistenziale, i popoli affoghino il diritto universale degli uomini liberi nello stagno nauseante del nazionalismo che, al contrario, rivendica un privilegio di appartenenza.
Ho fatto questa lunga premessa perché ritengo che un grande concorso di colpa nella rinascita di volgari sentimenti nazionalisti e identitari debba cercarsi nelle accademie universitarie italiane, in particolare in quelle di architettura.
L’architettura, si sa, è arte pubblica. Il suo stare nel mondo, offrendosi allo sguardo di chiunque, la rende partecipe della formazione del nostro gusto e, necessariamente per conseguenza, della nostra dimensione etica. Quanto più l’ambiente che ci circonda ci abitua alle novità formali, tanto più acquisiremo la confidenza necessaria per non temere i mutamenti che la storia da sempre ci riserva. Per converso, tanto più l’ambiente che ci circonda tenderà a omologare la nostra condizione abitativa, tanto più diventeremo intolleranti verso qualsiasi espressione difforme dal contesto storicizzato. Ed è proprio in tale quadro che il recupero della tradizione e la sua apologia, professate per più di mezzo secolo negli istituti di architettura del nostro bel paese, hanno condannato ogni forma di diversità che non aderisse concettualmente al passato, costringendo ogni progetto ad una sorta di innaturale sudditanza storica falsificata, di fatto legittimando ogni rimando a una cultura fondamentalmente borghese e patriarcale, come quella che ha prodotto l’architettura fino alla fine dell’ottocento.
Ricordo che l’idea universale di architettura, nata col razionalismo, poneva come prioritarie istanze individuali che appartenevano ad ogni uomo del pianeta, indipendentemente da razza, religione, privilegi culturali o di casta. Arrivò in Italia negli anni in cui si stava formando il nazionalismo fascista, che paradossalmente ne cavalcò l’impeto innovativo probabilmente non capendone la portata ideologica.
Nella rinascita del dopoguerra, l’occasione di sdoganare il paese dal proprio passato affondò a Milano nella realizzazione della Torre Velasca. Un brutto edificio di successo che ovviamente gratificò la nuova borghesia milanese. Ma non solo.
Su tale onda neoconservatrice, credo che l’ottanta per cento del mondo intellettuale italiano viva tuttora in edifici antichi o in contesti tali. Forse, la classe pensante italiana, vivendo nelle periferie, avrebbe impedito che le stesse diventassero motivo di scandalo sociale e avrebbe meglio compreso la loro condizione, lontana da quella profondamente borghese, contestata nelle parole ma praticata nei fatti.
La mia denuncia quindi è chiara.
Considero la mortificante condizione del regime politico e sociale attuali la conseguenza del rifiuto dei valori universali a vantaggio di quelli particolari. La creazione di miti culturali, che avrebbero dovuto traghettare il nostro vissuto in una nuova dimensione più democratica e giusta, hanno invece aperto le porte alle gerarchie tradizionali, le quali hanno ritrovato nel recupero dell’architettura del passato il rituale formale necessario per imporre socialmente l’autorevolezza del proprio privilegio.
Quando parlo di “architettura del passato” mi riferisco a quelle che aderiscono ad altri miti, che nelle facoltà e conseguentemente nella pratica amministrativa ordinaria fanno riferimento alle tipologie. Queste, che quando esistono tutti sanno essere figlie più della tecnologia che del gusto, rimangono pure invenzioni a cui vengono attribuiti valori didattici inesistenti. Altre opere del passato, quello recente per esempio, pur presentando qualità indubbie e riconosciute non godono della stessa narrazione. Possono essere demolite e sostituite senza nessun rimpianto, come sta per avvenire con il ponte Morandi di Genova.
Concludo con un invito.
Malgrado l’opinione contraria di mia moglie, credo d’aver raggiunto l’età matura. Una considerazione frequente, infatti, che mi passa per la testa è che, ricordando quelli che erano i sogni, le ambizioni, quelle stesse di mio padre o di chi mi ha voluto bene o quelle che sono state sempre le necessità, le contingenze che guidano l’ordinario, per cui il denaro è diventato un diavolo con cui convivere, credo che la vita in fondo sia poca cosa senza la presenza di pensieri alti, di frottole sublimi, com’è la favola dell’arte, che è sempre sfida della propria condizione per sua natura tragica. Senza l’arte, senza l’atto di voler nobilitare tutto ciò con cui si viene a contatto, della vita rimane ben poco.
Ma l’arte è qualcosa che bisogna fare, per cui occorre impegnarsi. Non la si trova per caso.
Per cui invito tutti al buon proposito per l’anno prossimo di alzare lo sguardo, togliere il pensiero da una contingenza che ci fa disprezzare la condizione umana e provare a lasciare il mondo un po’ meglio di come l’abbiamo trovato, evitando magari di demolire le opere d’arte che abbiamo.