14 agosto 2018, ore 11,36.
Crolla una parte d’un caposaldo dell’ingegneria italiana, il ponte Morandi di Genova. Non è solo un ponte, ma un capolavoro d’ingegneria riconosciuto in tutto il pianeta. Un raro evento architettonico, e ce ne sono pochi, che qualificano e nobilitano una parte di mondo che, senza, passerebbe inosservata. Tutti, dico tutti, passando su quel ponte hanno avuto la misura di quanto grande e alta può essere la dimensione umana.
28 agosto 2018.
Sono passati 14 giorni. Un tizio dello studio di Renzo Piano viene fotografato con un plastico sottobraccio mentre varca la porta della Regione Liguria. Il senatore architetto Piano intende donare il progetto di un nuovo ponte, definito in tutti i dettagli, maquette compresa. Probabilmente, la torre del ponte non era ancora del tutto crollata che al senatore era già arrivata l’ispirazione del nuovo progetto: un viadotto.
8 settembre 2018.
Foto di gruppo in Regione Liguria tra sorrisi, battute (una parte del modellino crolla durante la conferenza stampa suscitando un’inopportuna ilarità) dove Piano presenta la sua proposta, il viadotto, indegnamente chiamandolo ponte, nel quale dice convengono alcuni principi cardini della genovesità oltre ad un accenno retorico al numero di vittime che dovremmo riconoscere nei lampioni. Non mancano altri riferimenti all’oratoria ecologista di bocca buona, come il sole per pannelli solari, il vento e il verde.
18 dicembre 2018.
Sono passati quattro mesi e qualche milione di parole inutili, progetti, commenti e una lunga e strenua battaglia per far capire anche a chi non sa molto di costruzioni – come paradossalmente è il ministro delle infrastrutture grillino; quello che, stando continuamente pancia a terra, difficilmente potrà vedere in alto – che non si abbatte un intero capolavoro se ne crolla un pezzo solo, ma lo si ricostruisce e si ripara il resto, come, tra l’altro, in parte era già avvenuto.
Nessun esito, se non la conferma di quello che s’era deciso in partenza a pochi giorni dal disastro.
L’unica persona con gli attributi professionali e istituzionali per dar voce alla soluzione più sensata, economica e culturalmente evoluta che avremmo dovuto ingaggiare per consigliare ministro e istituzioni era quella che stava allegramente disossando lo scomodo cadavere di un avversario culturalmente inarrivabile.
E pensare che molti architetti in Italia avevano confidato nella figura del senatore, perché si facesse promotore di una legge sull’architettura degna d’un paese civile. Forse ora si renderanno conto che l’avrebbero consegnata a un personaggio che l’architettura preferisce abbatterla, magari solo per far posto alla sua.
Il fatto che, nemmeno per un minuto, egli abbia pensato alla possibilità di tenere in vita, anche se gravemente ferita, una delle rare architetture moderne di questo paese – un paese ferito da una retorica storicista che ha frenato ogni visione in cui la diversità fosse valore, aprendo in tal modo le porte al tradizionalismo più becero e razzista – fa riflettere sull’effettiva qualità della persona. E lo dico ben consapevole che alcune sue architetture meritano il plauso e l’ammirazione, e che l’etica personale, e i vizi più delle virtù, sono spesso le uniche chiavi deformate che possono muovere i meccanismi dell’arte.
Ed è proprio in base a questo mio personalissimo principio, in cui la tolleranza offre tutta la sua comprensione, che posso affermare questo: se la proposta di Piano avesse mosso la mia ammirazione per un progetto degno almeno di stare vicino a quello di Morandi, sicuramente avrei condannato l’uomo ma celebrato l’artista. Basta una sola grande virtù per cancellare infiniti e meschini vizi, tutti gli uomini lo sanno. E sono gli uomini di tutti i tempi.
Ma il progetto di Piano è scialbo e banale, addirittura sbagliato dal punto di vista architettonico, perché se il ponte Morandi ricamava il paesaggio con le trame sofisticate della statica, preservando trasparenza e profondità, questo di Piano banalizza il luogo con il concetto statico più elementare e scontato, quello trilitico, che contempla elementi essenziali ma neutri, travi e pilastri, come in qualsiasi situazione in cui l’uso del linguaggio verrebbe visto come non necessario, che è come negare l’architettura e tutte le contraddizioni che appartengono alla storia dell’umanità.
Non manca l’enfasi, è vero. Nei robusti piloni, che incolonnati come soldatini devono reggere gli impalcati, è presente il riferimento alla tradizione marinara, espressa nella sezione ellittica del profilo. Ma tale attenzione, avendo necessità di un ingombro capace di mantenere la compattezza tipica dei bastimenti, se nella visione di prospetto, dove mostra il lato sottile della sezione, procura un ostacolo visivo limitato, appena si muove lo sguardo lungo il percorso stradale, l’eccessiva larghezza dei piloni chiude la vista fino a precluderla, costituendo di fatto un muro impenetrabile. Meglio sarebbe stato comporre i piloni in più elementi sottili, come aveva a suo tempo previsto Morandi, ma l’allegoria navale sarebbe svanita.
Altra svista riguarda la sezione dell’impalcato. L’uso di rotondità in elementi dimensionalmente importanti procura un ampliamento percettivo dello spazio. Questo concetto, che risale al Barocco, produce una dilatazione dell’oggetto percepito, di cui si può fare esperienza guardando la facciata d’una qualsiasi chiesa barocca.
In questo caso, sarebbe stata soluzione migliore cercare di ridurre visivamente un elemento molto ingombrante che, tra l’altro, è sospeso sopra le teste a 45 metri. Un elemento segnato da rigorosi spigoli che contenessero gli spazi e li relazionasse avrebbe convinto maggiormente un osservatore attento.
Anche sul piano propriamente tecnico esiste nel progetto del viadotto un grave errore di progettazione: mancano completamente le banchine di contenimento dei mezzi in caso di incidente. Sicuramente, in fase attuativa l’errore verrà sanato ma, essendo le banchine un elemento parecchio influente nella composizione del profilo, sarebbe stato più opportuno tenerne conto in fase di ideazione.
Queste sono le mie critiche, che ho voluto scrivere a memoria futura, pur sapendo che troveranno il conforto di quanti hanno a cuore l’architettura e il suo fine, ma che in un paese destinato alla deriva della semplicità non avranno nessuna influenza.
Credo che siano giorni tristi per Genova e per questo paese , che potrebbe, e forse meriterebbe tanti Morandi, ma che deve accontentarsi d’un Renzo Piano in pantofole.