Nella testa d’un architetto ci dovrebbero essere due porte.
Dalla prima dovrebbero entrarci tutte le cose del mondo esterno; dall’altra, uscire le cose ancora da fabbricare. La prima porta reclama eteronimia, nel senso filosofico del termine, e la seconda autonomia, perché ogni sintesi linguistica ha necessità di trovare al proprio interno la sua sintassi. L’energia creativa, secondo me, nasce da questa ambigua dicotomia.
I problemi nascono quando la scintilla si spegne e il corto circuito s’interrompe: dalle due porte entrano e escono le stesse cose; vuol dire che il ciclo creativo s’è inceppato, perché viene a crearsi un circolo vizioso, ricorsivo, che tradizionalmente appelliamo col termine “manierista”.
Viviamo in un mondo complesso da sempre, ma solo oggi, con la comunicazione in tempo reale che ci fornisce la coscienza di appartenere ad un unico luogo spazio-temporale, ne sappiamo misurare l’effettiva estensione. Non si tratta, quindi, di ricorrere alla stampella sociologica, o altra deduzione d’analisi sociale, ma trattasi di semplice logica. Se da un lato entrano contemporaneamente cose complesse, incasinate e interconnesse, come possono, dall’altro, uscire solo cose semplici? Come si chiederebbe Edgar Morin, perché intossicare tutto con la semplificazione?
È notizia di ieri che il gruppo costituito dagli architetti Aranda, Pigem e Vilalta dello studio spagnolo RCR si è aggiudicato il Pritzker Architecture Prize per il 2017.
Nessuno vuole contestare le indiscusse capacità professionali e la storia virtuosa e trasparente d’un piccolo studio della provincia catalana (così dicono le cronache) approdato a uno dei massimi riconoscimenti professionali. Le voci a favore e quelle di circostanza, infatti, concordano nell’apprezzamento del lavoro di questi architetti e nella loro capacità di produrre raffinate e nobili architetture, partendo da presupposti d’ispirazione locale.
Personalmente, di loro, ho questa opinione. Leggo la loro architettura come una sorta di ritorno all’ordine, ma dal basso, senza imposizioni simboliche, formali o nostalgicamente rappresentative. Ovviamente, però, come tutti i ritorni all’ordine, anche questo è destinato alla semplificazione dei messaggi e al rigore dell’eleganza. E qui, secondo me, ritorna un problema antico e sempre nuovo: il conflitto tra la regola e l’antiregola.
Quindi la domanda che mi pongo è: perché il premio a RCR?
La sola voce critica di cui ho conoscenza, e che mi ha fatto riflettere al riguardo, è stata quella di Alessandro Melis che, con un post su facebook datato ieri, coglie il senso politico del riconoscimento dato in questa direzione. Credo d’interpretare anche il suo pensiero, e se così non è lo invito a contraddirmi, sostenendo che questo premio, assegnato allo studio spagnolo, non è adeguato al momento che stiamo vivendo. Non è il momento di premiare un’architettura che si ritira nel proprio raffinato compiacimento, per ragioni di puro antagonismo con gli eccessi precedenti o per strizzare l’occhiolino al populismo dilagante. Non è il momento d’ignorare il vento reazionario chiudendosi nelle proprie eleganti ispirazioni minimali.
Concordo anche sul fatto che le ambizioni politiche e sociologiche che hanno caricato di responsabilità aliene l’architettura del secolo scorso, oggi non abbiano più molto senso. L’ho scritto e ripetuto più volte, denunciando l’assoluta inefficacia e vanità della critica architettonica d’ispirazione sociale. Ma contrariamente a Melis non me ne dispiaccio. Se la porta d’entrata è aperta ad ogni stimolo e conoscenza, quella d’uscita, essendo sintesi, dovrà rispondere all’architettura con l’architettura e nient’altro, in piena autonomia. Quindi bene l’architettura per sé stessa, se frutto di una sintesi nella quale tutto il sapere può entrare. Ma la sintesi è linguaggio e non può essere altro che linguaggio.
Cosa contesto, quindi, agli assegnatari del premio? Contesto l’inadeguatezza del linguaggio premiato in relazione alla complessità del momento in cui viviamo, che avrebbe richiesto un’ulteriore sfida linguistica innovativa, che non necessariamente deve passare per l’informale elettronico, senza appartarsi nel salotto perbenista dove non si alza mai la voce.
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