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Storia e Critica

Sulla bellezza e l’eco-buonismo

Il 2015 si è chiuso più o meno come è cominciato: rassegnato.
Da cosa viene la rassegnazione? Probabilmente e principalmente dall’incapacità di uscire dalla crisi economica in cui ci siamo impantanati da diversi anni. Crisi che ci ha resi nella condizione di spirito per cui, poco, è sempre meglio di niente. Occorre accontentarsi.
In effetti, anche nel campo dell’architettura, dove ormai da anni non si semina ma si bada piuttosto a raccogliere, quest’anno passato non ci ha riservato un granché. Se dovessi citare un progetto da ricordare in futuro non saprei proprio dove andare a parare. E questo, malgrado l’opportunità dell’esposizione milanese e di tanti soldi investiti. Un costoso baraccone che non lascerà nulla se non un goffo edificio forzatamente scomposto e quindi formalmente convenzionale.
Volutamente non ho usato il termine brutto edificio per evitare ogni riferimento alla tendenza di questi ultimi anni nei quali, grazie alla compiacenza di parecchi intellettuali di bocca più o meno buona, abbiamo assistito alla rinascita di aggettivi qualificativi che sembravano destinati filosoficamente all’estinzione. La parole bello e brutto, se era occorso tutto il novecento per aggettivarle e confinarle nel bagaglio lessicale personale e privato, presso i passatisti ringalluzziti dal neoconservatorismo identitario hanno ritrovato non solo dignità, ma persino l’articolo per mezzo del quale riassurgono linguisticamente a valore universale.
Sulla bellezza s’è scritto e detto tanto. Sulla sua naturale convergenza con l’esito di ogni esperienza artistica, meno. Ma sostenere oggi che arte e bellezza coincidano per principio produce un paio di riflessioni che è meglio ricordare.

La prima riguarda la finalità dell’arte, che indubbiamente non può che coincidere con quella dell’artista che la genera. Altre interpretazioni, o letture critiche successive, sebbene legittime, importanti e decisive ai fini della valutazione dell’opera, sono posteriori e come tali non hanno influenza nell’atto creativo. Ora, ritenere che il fine principale di ogni artista sia il ricorso all’ideale di bellezza, mi sembra confutato da tante citazioni di personaggi la cui fama è garanzia di valore artistico e culturale. Uno per tutti, Picasso: “Non mi piace la gente che parla della bellezza. Cosa è la bellezza? Uno ne potrebbe discutere come problema nella pittura.”
Certamente, per molti artisti la bellezza ha rappresentato e rappresenta lo scopo primo della loro ricerca. Ma il fatto che non lo sia per tutti ne rende parziale la promozione.
Cosa accomuna dunque i protagonisti della ricerca? Sicuramente la volontà di lasciare il mondo migliore di quando lo hanno trovato. Un semplice ambizione che, per potersi realizzare, non deve necessariamente ricorrere al criterio di bellezza. Anzi, come spesso è avvenuto per le avanguardie del novecento, il vero stimolo per la produzione artistica è stato il ricorso al suo contrario, la bruttezza. E non parlo di disarmonia, asimmetria, mancanza di canoni e proporzioni, ma di situazioni comunemente ritenute spregevoli riscattate dalla circostanza artistica.
Bellezza e bruttezza, quindi, non sono solo condizioni provvisorie riferibili al gusto storicamente determinato ma, sottomesse alla determinazione dell’artista, sono in grado di determinare per sé autonomamente il cambiamento.
Quando parlo di condizione storica del gusto, ne parlo non in senso storicista. Intendo dire che la storia, secondo un concetto classico di sostituzione (il nuovo si sostituisce al vecchio), deve lasciare il posto a quello attuale dove nessun criterio sostituisce il precedente, ma ad esso si somma. Chiamatelo criterio postmoderno se volete, ma io preferisco chiamarlo neomoderno.
Se esiste un movente con requisiti di generalità relativo alla produzione artistica, questo non è dunque il concetto di bellezza, ma quello sostanzialmente etico di lasciare il mondo meglio di come lo si è trovato. Questo è l’ambito dove etica ed estetica si saldano in un’unica dimensione artistica.

La seconda riflessione riguarda appunto l’aspetto etico dell’architettura.
O, meglio, degli architetti.
Correva l’anno duemila quando Massimiliano Fuksas veniva incaricato di curare il padiglione italiano della 7.ma Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, dal titolo “Less Aestethics, More Ethics“. Tradotto: meno estetica, più etica.
È di queste ore la notizia che i fedeli convenuti nella chiesa che lo stesso architetto ha costruito a Foligno (2001/2009), la sera di Natale hanno abbandonato l’edificio in preda a congelamento. Problema tecnico, conosciuto da tempo, ma mai risolto per il fatto che, pare, l’architetto non abbia approvato opportune soluzioni tecniche che comprometterebbero l’estetica dell’edificio.
Appunto, verrebbe da dire.
Quest’anno la biennale sarà curata da Alejandro Aravena, un pluripremiato architetto cileno che insegna ad Hardward, ed avrà per titolo “Reporting from The Front” – che sta più o meno per “notizie dal fronte“. Non si capisce perché non lo si possa scrivere in italiano.
Il tema dovrebbe vertere, a detta degli organizzatori, sulla rinascita del ruolo sociale e civile degli architetti nella gestione d’un ambiente in rapida trasformazione. Ecologia più etica, insomma. Basta con l’architettura spettacolo.
Un tema di moda da cavalcare con la classica postura dei salotti buoni, ma rivisto in età post-ideologica. Un ideologismo prêt à porter, “che serva a riconciliare l’architettura con la società civile ( cit.)“, da consumarsi preferibilmente prima della fine della crisi, finché l’ondata populista su cui veleggia non svanisca nel dimenticatoio.
Nel frattempo avremo premi e premiati, con il merito d’aver abbigliato l’architetto con la tonaca del brav’uomo, che ascolta il prossimo e a lui dedica i suoi necessari servigi.
Conosco questo mestiere e lo pratico da molto e so bene quanta fatica occorra per ottenere dei risultati. Anni e tanto lavoro; non è retorica, credetemi. Ma mai ho avuto la presunzione di determinare i destini di qualcuno, figuriamoci quelli del pianeta. Chi ha chiesto il mio lavoro e impegno, ha richiesto essenzialmente la mia personale esperienza e sensibilità. L’unica mia etica risiede, quindi, nel dare risposte disegnate a semplici richieste esistenziali, dove infine contano gli uomini, ma conta principalmente la ricerca e l’architettura che produco. Perché gli uomini, dagli architetti, vogliono principalmente architettura, non scienze sociali o storiografia da banco.
In confidenza, tutto quest’impegno etico del sistema mediatico e culturale che governa gli eventi a tema, esaurito il filone dell’architettura spettacolo, in fondo unico strumento di sostanziale rinnovamento del linguaggio, è dovuto soccombere alla necessità di riciclarsi per conservare potere accademico e privilegi professionali. Ma tranquilli. Come dicono i francesi, si occuperanno solo della merda che non puzza. L’altra la lasceranno come sempre a noi.
Ora, in tutta quest’etica esibita, se ci pensate bene, di arte ce n’è ben poca. E non vuole essercene se non quel tanto necessario a decorare l’elemosina. Il sostanziale conflitto tra l’urgenza programmatica, tanto cara alla spocchia degli accademici, e la necessità dell’arte contemporanea di rompere equilibri e schemi preordinati, rende evidente la contraddizione. Mi direte: ma in fondo, anche loro vogliono lasciare il mondo meglio di come l’hanno trovato. Certamente, ma è un proposito che si può praticare senza dover per forza rompere le palle agli sfigati del pianeta. Che, forse, data la loro peculiare precarietà e incertezza, qualche invenzione semantica ce la possono ancora passare prima che l’ecobuonista di turno ne faccia sparire le tracce.

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