È notizia di questi giorni che all’architetto Rem Koolhaas sia stata affidata la direzione della prossima biennale di Venezia 2014.
La mia prima reazione è stata la sorpresa, che ha repentinamente generato la seguente domanda: com’è possibile che in tempi di Savonarola le istituzioni ingaggino il più goliardo dei mercatisti dell’architettura contemporanea per dirigerne l’evento degli eventi?
Una risposta me la sono data.
Secondo il mio modesto parere, l’investitura ne canonizza definitivamente la parabola teorica che, a partire dalla sua partecipazione del 1980 alla biennale di Portoghesi, madre di tutte le goliardate architettoniche successive, per poi passare al Leone d’Oro attribuitogli nel 2010, finalmente arriva alla celebrazione finale nel gran baraccone della cultura istituzionale italiana, sempre molto generoso nell’elogio di chi ha smesso di graffiare per non rovinarsi lo smalto delle unghie.
Elogio, per questa sua particolare natura, evidentemente destinato alle esequie del pensiero architettonico ribelle del nostro nuovo direttore.
Detto questo, in virtù d’una chiamata in quella che un tempo era ritenuta la prima linea del contemporaneo – e, soprattutto, al di fuori delle polemiche sul recente progetto per Prada al Fondaco dei Tedeschi – mi è sorta una curiosità successiva.
Koolhaas concreta effettivamente nel suo lavoro di architetto le cose che dice di pensare? E, se no, quale definizione meglio ne descrive la postura architettonica, resa oltremodo popolare dall’azione dei media, sponsorizzata dalle grandi firme, adulata da giovani studenti e professori, riverita dai critici, soprattutto in Italia, per le sue ardite risposte progettuali?
La postmodernità
È forse, mi chiedo e vi chiedo, Koolhaas un architetto postmoderno?
Sicuramente sì! Nelle sue opere, benché rivolte al superamento della coerenza compositiva e del finalismo tipici del razionalismo moderno, pur affrancandosi dallo storicismo caricaturale che ha connotato la postmodernità in versione italica, è comunque ricorso alla citazione e all’elenco per ri-assemblare elementi architettonici noti, provenienti dalle avanguardie storiche del novecento, riducendone di fatto il portato ad una sorta di nuova tradizione cui attingere con disinvoltura.
Alla teoria postmoderna interessa solo il senso di un testo, non la sua scrittura, la quale deve fatalmente attingere ad un vocabolario formale storicizzato.
E Koolhaas lavora esclusivamente sul senso.
Egli disarticola i volumi e ne corrompe la gerarchia. Ma sono volumi sempre conclusi, di cui preserva l’integrità perché conservino una precisa connotazione; li contrappone, li buca, li spazia alterandone pause e funzioni, ma il fine è sempre la ricerca di un senso, magari differente, ma compiuto, ottenuto con una scrittura neutra, volutamente senza firma. Un senso esaltato proprio dalla sua condizione apocrifa.
Il decostruttivismo
È forse, Koolhaas, un architetto decostruttivista?
Secondo me, sicuramente no! Malgrado il riconoscimento in proposito ottenuto dal ben più solido (teoricamente parlando) Peter Eisenman, è proprio l’assenza deliberata della scrittura che non ha emancipato l’architettura di Koolhaas dalla tirannia del senso. Limite, questo, che ha coinvolto lo stesso Eisenman.
Senza agire direttamente sulle parole, privandole d’un significato necessario, l’architettura s’infila in una ricerca sterile, perché i discorsi sul rinnovamento del senso non possono generare novità se non si fanno letteralmente esplodere le parole stesse che tale senso determinano.
Dice Derrida (Adesso l’architettura – Libri Scheiwiller) “ La decostruzione non consiste semplicemente nel dissociare o disarticolare o distruggere, ma nell’affermare un certo “essere insieme”, un certo adesso; la costruzione è possibile solo nella misura in cui le fondazioni stesse sono state decostruite. L’affermazione, la decisione, l’invenzione, il venire del constructum, non è possibile fino a quando la filosofia dell’architettura, la storia dell’architettura, le fondazioni stesse non sono messe in questione. Se le fondazioni sono garantite, non c’è costruzione e nemmeno c’è invenzione. L’invenzione presuppone una indecidibilità; presuppone che a un dato momento non ci sia nulla. Noi fondiamo sulla base della non fondazione. Perciò la decostruzione è la condizione della costruzione, della vera invenzione, della vera affermazione che tiene insieme qualcosa, che costruisce. Da questo punto di vista solo un certo appello, o un certo ricorso alla decostruzione, può davvero inventare l’architettura.”
Derrida, in fondo, ci dice che il nuovo ha senso solo se ha un senso nuovo, solo se nasce insensatamente dall’esplosione del discorso e del suo significato. Koolhaas, al contrario, fa discorsi che cercano e perseguitano il senso, ma non lo sanno creare superandolo.
Occorre pertanto decostruire le parole dell’architettura, che sono volumi, piani, spigoli, pareti, pilastri, bucature, trasparenze, tutte fondanti certezze della tradizione costruttiva, antica e moderna, e affidarle ad un’immaginazione altra, in cui è necessario battersi tra forma e significato e scegliere se “portare all’estremo limite un formalismo o un semantismo”, in cui occorrerà “desemantizzare l’architettura per cominciare a pensare l’architettura stessa”.
Per inciso, quella che ho appena descritto è la condizione dello scrittore di letteratura, che pone la qualità letteraria sempre sopra la trama dei suoi romanzi. Un mestiere scarno e solitario, che costringe alla fatica del tavolo di lavoro, o del tecnigrafo se preferite, luogo incline più al mal di schiena che ai luccicanti salotti dell’architettura parlante.
Secondo me, per concludere, la personalità di Koolhaas, i cui interessi spaziano in troppi luoghi di quella provincia dell’architettura che negli ultimi trent’anni ne ha condizionato pesantemente gli esiti, andrebbe misurata più col metro della sociologia di massa che con quello della materia architettonica in senso stretto.
Da un punto di vista rigorosamente progettuale, e credo sia questa, per me, la definizione più appropriata, egli riflette a suo modo la figura di uno scienziato della patafisica Ipotetica. Definizione che, come la definisce Treccani, riguarda quella “scienza delle soluzioni immaginarie… che si sovrappone alla metafisica… che si esprime in forme di ragionamento capziose e paradossali e in un linguaggio festosamente dissacratorio…”. Nell’impossibilità di superare la metafisica, la si può tranquillamente cavalcare, campandoci allegramente sopra molto agiatamente.
Indegna sorte, per uno come lui, finire la sua proficua parabola eretica nella conversione Veneziana.
Auguri, comunque, a Koolhaas e alla sua prossima biennale.