Si chiude un 2012 da dimenticare.
Se le premesse d’un anno fa erano cupe, gli esiti son risultati tragici. Parlo dell’architettura e degli eventi che l’hanno coinvolta, che ha vissuto un anno di coma profondo: un nulla di fatto che ci ha convinti, per dodici mesi, al silenzio, tranne la riflessione d’un carcerato che ci ricordava, e ricorda tuttora ai governanti di questo paese, che civiltà e disciplina non sono sinonimi. Anzi, spesso, quando vengo redarguito per l’indisciplina e la tolleranza che accompagnano la mia vita e il mio lavoro, che sia una multa per divieto di sosta o l’inosservanza di qualche paranoica prescrizione urbanistica, a fronte d’un laconico riferimento alla superiore civiltà dei popoli obbedienti, uso menzionare il generale Cadorna il quale, nella prima guerra mondiale, otteneva disciplina fucilando sul posto semplicemente chi osava disobbedire.
“Nel luglio 1917 i soldati della Brigata Catanzaro si rivoltarono al grido di “morte a D’Annunzio”. In ventotto, quasi tutti contadini meridionali, vennero messi al muro. D’Annunzio in persona si affrettò ad assistere all’esecuzione. Annotò del caldo e delle allodole che cantavano. Descrisse la scena. I ventotto pregarono. Poi, il plotone sparò. D’Annunzio continuò a prendere appunti: “Sotto le foglie vidi i berretti, gli elmetti, i brani delle cervella coperti dalle mosche a nuvoli, le righe del sangue già risecco fra gleba e gleba”.
(http://laramanni.wordpress.com/2010/10/)
È difficile ottenere disciplina senza massacrare il prossimo. Un massacro, peraltro, consumato in un intervallo morale privo di confini laici, che dalla semplice condanna dei vizi quotidiani può arrivare a ferire la libertà di vivere e rappresentarsi come meglio si crede, fino, volendo, come faceva Cadorna, a decidere della stessa sopravvivenza. Per questo, quando sento in giro parole quali rigore, inasprimento, severità , e persino sobrietà, non mi felicito ma mi viene di vestire a lutto. Non difendo assolutamente i cialtroni, beninteso, ma quando sento dire da qualcuno che vuole cambiare costumi e cultura degli italiani (ma quali italiani? Tutti quanti?) non vedo in lui niente di autenticamente liberale.
Il liberalismo non è attributo esclusivo dell’economia. Non sono un materialista, né nuovo né vecchio, e malgrado i fatti recenti stiano a dimostrare che il denaro viene sopra tutto e tutti, voglio continuare a sperare che non siano i ragionieri e le loro dottrine finanziarie a dovermi destinare il futuro. A loro si chiede di metter i conti a posto, con rigore e prudenza. Ma per immaginare il futuro e costruirlo non serve prudenza ma coraggio, non serve il conformismo ma l’originalità. Occorre quella tensione che gli antichi chiamavano utopia, che è sintesi d’incoscienza, d’imprudenza e, soprattutto, d’un grandissimo coraggio intellettuale.
Ma il coraggio, come mi ricorda sempre Paolo Ferrara citando Sciascia, è dote intera e, aggiungo io, individuale. Lo si chiede a se stessi e non agli altri.
Di questa dote, in un anno moralmente disastrato come questo, in architettura non s’è vista traccia – salvo, per inciso, il lavoro di Emanuele Piccardo con la mostra Radical City – mostra sull’architettura radicale italiana che voglio ricordare.
Per il resto, grande codardia nel proporre, anche istituzionalmente come nell’ultima biennale di Venezia, architetture mediocri mascherate d’un ecologismo grossolano e mercantile.
Voglio chiudere con una riflessione che vuol fare da contraltare al manifesto che Luigi Prestinenza Puglisi ha recentemente pubblicato. Buona parte delle tesi espresse, quasi tutte, hanno un’evidente genesi zeviana. Mi spiace che il nome di Bruno Zevi non appaia nel testo, ma soprattutto mi sembra che manchi il tronco dell’albero che vanta una dozzina di rami. La ragione prima del non finito, della necessità dell’innovazione, dell’ecologia come argomento distintivo dell’architettura, ecc… non è dichiarata e i punti proposti sembrano provenire da un sentimento mediatico condiviso, non dico incoerente, anzi, il contrario, troppo presentabile e conveniente.
Io vi propongo non un manifesto ma un elenco, rigorosamente gerarchico per chi si avvicina all’architettura con coraggio e voglia di rischiare.
In ordine d’importanza, nella redazione d’un progetto: al primo posto viene un’architettura originale, al secondo le persone che devono abitarla, al terzo le regole urbanistiche che pretendono di governarla.
Chi vi paga per un progetto vuole un’architettura fatta da un architetto capace, non da un filantropo né tantomeno da un sociologo o uno storico. Chi abiterà la vostra architettura vi apprezzerà per quello che avrete realizzato e non per le attenzioni che avrete loro dedicato. Un bravo architetto, inoltre, è pagato per stravolgere le regole, non per osservarle. L’etica d’un bravo architetto,infine, la sua ragion d’essere socialmente sta tutta e soltanto nell’estetica dei suoi progetti. Se una società ha bisogno di buoni consigli non andrà da un architetto ma molto più saggiamente da un filosofo.
Tutto il resto è commento.