Tra i diritti fondamentali di una persona c’è anche quello di potersi costruire la casa con un’architettura rappresentativa della propria cultura e sensibilità. Si tratta di un diritto che riguarda in generale la libertà d’espressione e il nostro modo molto intimo e personale di stare al mondo.
Così come ci si sceglie vestito e automobile e ci si esprime liberamente con parole e gesti, allo stesso modo si ha il sacrosanto diritto di abitare a proprio gusto e piacere, comunicando al prossimo l’esperienza della nostra vita con la personalità che meglio ci descrive.
Credo anche che questo sia un diritto tra i più profondi e fondamentali perché è molto semplice da capire quando ci riguarda ma, a quanto pare, molto difficile da far rispettare dagli altri, spesso poco disposti a tollerare le stravaganze del prossimo, ma soprattutto da quegli addetti della pubblica amministrazione che la legislazione interpone tra questa legittima necessità espressiva, oltre che abitativa, e la sua concreta realizzazione.
È sempre più frequente, infatti, il caso in cui, soprattutto nei piccoli centri dove l’attrezzatura culturale e giuridica è spesso indolente – forse perché sedotta dal contesto agreste che per tradizione è meno disposto alle novità formali – questo diritto viene tranquillamente calpestato in ragione d’un’estetica d’interesse collettivo, dettata in forma anonima, caso per caso, da un convegno di sedicenti esperti (in edilizia sicuramente, forse meno in filosofia e storia dell’arte) che prende il nome di Commissione edilizia.
Con la considerazione preventiva che l’interesse generale debba comunque prevalere su quello particolare e privato, nella convinzione d’essere investiti d’una missione pubblica, in molti soggetti che danno vita a questi comitati si sta radicando l’idea che, appunto in fatto d’interesse, il generale abbia piena facoltà di annientare il particolare, purché il delitto sia compiuto collegialmente (in forma di commissione, edilizia o paesaggistica indifferentemente) e abbia conseguenze su tutti indistintamente, senza deroghe, eccezioni e, soprattutto, favoritismi. Insomma, l’onestà della prassi dovrebbe giustificare e garantire la bontà della teoria. Ma non è così. Se la teoria difetta, nessun rigore nella prassi la potrà redimere e giustificare.
Il difetto della teoria, a mio parere, sta nell’attribuzione d’un valore assoluto a ciò che definiamo in modo molto astratto interesse generale. Una sorta di stella fissa alla quale tutto deve riferirsi, ma che fissa non è.
Nell’universo sociale, complesso e relazionale, non esistono stelle fisse. Cosicché ogni scelta pubblica è sempre e solo prerogativa di una parte rispetto ad un’altra, minoritaria. Per questo esiste la politica. Per questo esiste il confronto delle idee, a condizione che queste vengano espresse e, soprattutto, che abbiano possibilità d’esser manifestate.
Le ragioni della politica non sono le stesse di quelle che orientano un consiglio di amministrazione societario, dove il silenzio della concorrenza produce solitamente un beneficio per tutti i soci.
In politica, se non si dà spazio al dissenso, se non si tutela l’integrità di chi la pensa diversamente dandogli modo d’esprimere il suo pensiero, addio confronto e, di conseguenza, addio politica. Annientare il dissenso, espresso in qualsiasi forma e da qualsiasi cittadino, in politica equivale al dispotismo, che è di fatto un suicidio collettivo.
Ci sono dei confini, quindi, che non possono essere varcati nemmeno dalle migliori intenzioni di carattere generale. Questi confini sono i diritti della persona, che tutelano la sacralità degli individui dagli eccessi dell’organizzazione sociale, qualunque essa sia e indipendentemente dalla nobiltà dei fini che la determinano, senza distinzione di razza, di religione, di sesso e, ovviamente, di gusto; e tra questi diritti certamente c’è quello di abitare come meglio si desidera, magari davanti un caminetto acceso godendosi il paesaggio da una grande vetrata, senza che un pretestuoso concistoro ci obblighi a passare le giornate sbirciando dai pertugi della finta casa di nonna papera, per il semplice fatto di stare in centro storico o in campagna con l’obbligo di compiacere qualche gitante domenicale.
Nessuno lo può fare, semplicemente perché non si deve fare. Non si può imporre a tutti, per diritto, una tendenza culturale per sua natura reazionaria, generalmente avversa ad ogni forma di novità formale, fondamentalmente conservatrice e tradizionalista, in cui si sostiene il falso storico e si rimpiazzano le poche cose originali rimaste in piedi con la loro caricatura. Non si può imporre uno stile, una tipologia, nemmeno con l’alibi filologico, spacciando il nulla per linguaggio architettonico, a chi non ne vuole sentir parlare perché giudica insensata la mistificazione.
Eppure è quello che sempre più frequentemente succede, almeno dalle mie parti e, ripeto, soprattutto nei centri minori, dove ai componenti della Commissione edilizia viene di fatto delegato il compito di moderare le presunte esuberanze estetiche dei nuovi interventi edilizi.
Detto così, un simile compito parrebbe anche avere un senso, un senso comune. Ma un senso molto comune, che si manifesta soprattutto nei facili commenti sempre più diffusi sulla bruttezza e degrado del paesaggio, devastato dalla brutta architettura, soprattutto moderna, che bisogna assolutamente vietare o quantomeno camuffare con gli abiti di quella antica.
Affermazione, questa, talmente banale che induce al plauso anche chi dei termini “bello” e “brutto” non sa dare nemmeno una definizione elementare.
“Non abbiamo strumenti giuridici per fermare il brutto” lamentava un sindaco di non ricordo dove. Come se il brutto avesse una sua ontologia, una sua oggettività riconoscibile universalmente. Come se, soprattutto, non avesse legittima cittadinanza tra le persone civili. L’arte del novecento ha speso i suoi migliori talenti proprio per mostrarci l’altissimo valore estetico della bruttezza, così com’era intesa classicamente. Bellezza e bruttezza non sono categorie affidabili. Sono piuttosto scivolose. E lo sono per tutti, indipendentemente dalla cultura personale e dalle propensioni politiche. Se non si è sufficientemente prudenti è facile ritrovarsi, da una parte, tra gli sprovveduti conformisti ad applaudire, per esempio, le esuberanze mediatiche di qualche tutore delle vecchie bellezze italiche che lamenta, additando il nuovo, l’imbarbarimento di una civiltà in declino. Mentre, dall’altra, “un certo egualitarismo inintelligente, diffuso tra noi, ha frenato gli spontanei e liberi processi di differenziazione culturale, il bisogno di elevazione umana. Così le opere della libertà, che sono necessariamente diseguali, rischiano di essere svalutate, dissipate, mutilate. Allora le qualità umane da eccellenti diventano mediocri e – peggio – si diffonde un amore sconsiderato per la mediocrità…”. Così Andrea Carandini, dal 2009 Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, sul Corriere della sera del 24 gennaio 2011 .
La maggiore autorità italiana in fatto di beni culturali, contrariamente al senso comune che vorrebbe scongiurarle, ci suggerisce addirittura la promozione delle esuberanze estetiche, libertà espressive capaci di liberarci del ciarpame di una mediocrità diffusa.
La domanda giusta, quindi, è questa: è più civile un popolo che permette a tutti i cittadini di esprimersi liberamente, tollerando quella confusione formale che una tale condizione promuove inevitabilmente o quello che, per imporre un’armonia apparente e consolatoria, costringe la sua gente alla sudditanza, al conformismo e alla mistificazione? A mio parere, si tratta di scegliere tra due possibilità. Da un lato una civiltà onesta anche se confusa, gioiosa anche se difficile, la cui bellezza consiste soprattutto nel tollerare e mettere a frutto le libertà del prossimo, costruendo la qualità del futuro sulla libera competizione delle idee e, dall’altro, un’armoniosa barbarie, tristissima nel suo conformismo disciplinato e culturalmente avvilita dalla nostalgia, rigorosamente intrappolata in tipologie dogmatiche e catene ideologiche che appartengono soprattutto alla poca fantasia di coloro che se ne devono servire, per presunzione o profitto.
Compito dell’arte in genere, e dell’architettura in particolare, è quello di dare rilevanza estetica alla realtà che viviamo, così da nobilitarne il giudizio sul piano etico. La nostra realtà oggi è confusa perché complessa, con tanti attori che si muovono rapidamente. Un tempo, all’epoca del paesaggio ordinato che tanto piace agli intellettuali della domenica, pochi privilegiati avevano capacità di modificare il territorio, che cambiava con grande lentezza, sufficiente ad assimilarne la trasformazione senza grandi traumi estetici. I molti vivevano, per più generazioni, in catapecchie terrose, poco più che capanne allungate, come si vedono ancora dalle mie parti, nelle quali si ammassavano figli e bestie, nemmeno immaginando che un giorno il lavoro, diffuso dallo sviluppo economico, sociale, tecnico e scientifico, li avrebbe emancipati da una condizione di schiavitù estetica e morale prima ancora che economica.
Il progresso e la ricchezza diffusa hanno dato finalmente a tutti la capacità di spendere dignitosamente il proprio denaro e hanno reso questa facoltà vitale per il mantenimento di questa realtà sociale, indipendentemente dal regime ideologico che dovrebbe produrla. Ma il progresso ha un prezzo importante che non si può evitare e occorre pagare. Tanti soggetti oggi possono fare tanto producendo velocemente molto disordine nella trasformazione del posto in cui vivono, a cui i vecchi canoni estetici ispirati all’analogia e all’omologazione non possono più dare risposte convincenti.
Il compito dell’architettura, in questa confusione, è quindi quello di “estetizzare” la diversità, il disordine, le disarmonie, come hanno fatto nel novecento tutte le arti, pittura e musica con più evidenza, senz’esser costretti a mutilare quelle libertà che sono state il motore del riscatto civile di cui siamo orgogliosi.
La libera ricerca artistica e formale è quindi necessaria per mantenere alti i nostri livelli di civiltà. Perciò appare quantomeno sconcertante che qualche pubblica istituzione, magari equivocando gli stessi nobili propositi, ne proibisca l’attuazione prescrivendo rispetto del contesto, che è una squallida parodia dell’antico anche per ciò che è nuovo e diverso.
Il principio di libertà di confronto che questo scritto rivendica, ovviamente vale anche per chi ha tesi esattamente contrarie alle mie. Il problema con costoro riguarda la prassi: io tollero le loro e loro devono tollerare le mie. Non possono impormele per legge e nemmeno per volontà popolare. La logica vuole che si può tollerare tutto tranne l’intolleranza, diceva il filosofo Karl Popper.
Se a qualche sindaco o commissario, interpreti d’una mediocrità prevalente, piace metter su casa col mobilio finto della nonna, è più che legittimo e civile che lo faccia. Ma non lo può imporre a tutti gli altri in ragione d’un’uniformità di contesto a cui non crede più nemmeno il più sprovveduto degli amatori dell’architettura.
Queste che ho descritto dovrebbero essere alcune ragioni teoriche per cui chi partecipa ad una qualsiasi commissione, con il compito di valutare un edificio, non dovrebbe dare giudizi estetici sui progetti ma esclusivamente tecnici. Facoltà, questa, peraltro già assegnata con la nomina di un responsabile del comune che la legge sul testo unico del 2001 aveva introdotto quale unico interlocutore amministrativo.
Unico, nel senso che uno stato di diritto vuole un solo responsabile che informi il cittadino, prima, di ciò che può e non può fare, senza dover asservire nessun’altra ragione culturale che non sia la sua.
In democrazia non esistono ragioni culturali di Stato, anteposte a tutte le altre e tali da potersi imporre per diritto. Chi ha una teoria che sostiene il contrario lo dica esplicitamente, senza nascondersi dietro l’ipocrisia d’essere solo funzionale ad una norma scritta, ben sapendo che tale norma prescrive proprio una illegittima censura culturale.
Chi ritiene di poter difendere gli abusi che sono in atto ci dica su quale base teorica rivendica la superiorità estetica di una teoria rispetto ad un’altra.
In particolare, voglio rivolgermi agli architetti e all’Ordine che li governa. Gli architetti, come gl’ingegneri e i geometri, sono quei professionisti che in genere accompagnano i cittadini nella realizzazione del loro desiderio abitativo. In maggioranza sono dei tecnici la cui attenzione è rivolta più alla stabilità strutturale degli edifici che non all’aspetto comunicativo della loro architettura.
Per gli architetti dovrebbe essere il contrario. Quindi essi non possono ignorare il presupposto teorico che tutela la libertà progettuale essenziale al lavoro che svolgono. Anzi, dovrebbero essere i primi a difenderla, magari con l’aiuto dell’unico sindacato che lo Stato italiano concede loro con una legge che rimanda tuttora a quelle razziali del 1939.
L’Ordine degli Architetti, sul presupposto di un’ipotetica eguaglianza di talenti che dovrebbe ipocritamente garantire al pubblico la stessa competenza dei suoi ordinati, viola la deontologia quando concede agli stessi, nel territorio neutrale e segreto delle commissioni, non solo il diritto di disapprovare il lavoro dei colleghi ma, addirittura, di censurarlo. Per correttezza e obbedienza deontologica, questo dovrebbe invitare tutti i commissari iscritti al proprio ordine ad esimersi dal dare giudizi nel merito delle scelte progettuali dei colleghi, di fatto sostituendosi ad essi, se non altro per un semplice principio di lealtà di concorrenza.
Oppure, molto più nobilmente, dovrebbe chiedere a coloro che partecipano a dette commissioni di dimettersi allorquando gli strumenti urbanistici indicano esplicitamente scelte progettuali preventive, incompatibili con non solo con le teorie fondamentali ma con la deontologia professionale.
Ma soprattutto dovrebbero espellere tra gli iscritti quelli che di tali abusi negli atti amministrativi sono gli autori materiali.
Stessa cosa dovrebbero fare tutte quelle associazioni che hanno come scopo la promozione dell’architettura. Specificando, innanzitutto, quale è per loro l’architettura da promuovere (antica, moderna, postmoderna, ecc…) si farebbe maggiore chiarezza presso il pubblico sui propositi delle medesime e si eviterebbe di trovare tra i censori d’un progetto un associato che nei buoni propositi la dovrebbe pensare come voi.
Ci sono altre ragioni per cui è socialmente conveniente che le commissioni edilizie vengano soppresse. Alcune riguardano aspetti giuridici che sarebbe bene fossero illustrati da chi si occupa di diritto. Altre sono minori, dal mio punto di vista, ma non meno rilevanti, come la necessità di sveltire le pratiche amministrative per aiutare il paese ad uscire da una crisi economica profonda.
Altre, ancora più irritanti nella loro ingiustizia, riguardano la spartizione professionale del territorio e delle parcelle. Fenomeno che per verificarsi non ha bisogno della malafede di nessuno. Nei piccoli centri, e in Italia ce ne sono tanti, per ragioni statistiche e demografiche i personaggi che circolano sono sempre gli stessi, i quali hanno una loro idea personale che vorrebbero legittimamente promuovere. La possibilità di poter censurare progetti non graditi determina zone geografiche d’influenza nelle quali la popolazione ravvisa automaticamente il modo più rapido per la soluzione del loro problema abitativo.
Per concludere, per me sarebbe importante che da questo scritto uscisse perlomeno un confronto produttivo sulle ragioni di una situazione preoccupante.