L’architetto Giulio Cagnasso mi ha recentemente segnalato un articolo pubblicato sul Giornale di martedì 8 dicembre. L’autore, Luca Beatrice, recensisce “L’uomo artigiano” di Richard Sennett, sociologo che insegna a New York e Londra.
Il testo, secondo l’autore della recensione, prende posizione contro l’arte contemporanea dell’ultimo mezzo secolo nel quale gli artisti hanno smesso di “fare in prima persona”, relegando l’azione a puro concetto, a fatto impersonale interpretabile da cose o persone indifferentemente e in tutto indifferenti.
Dice, in breve, l’articolo in questione:
“Dalle prime avanguardie del novecento l’arte ha corso in un’unica direzione: uscire dall’opera tradizionale, smaterializzarsi dall’oggetto, inserire brandelli di realtà, possibilmente già esistenti, perché in una visione moderna non si può essere schiavi dell’abilità tecnica e manuale.”
“I veri guai sono cominciati dal minimalismo in qua. Secondo i teorici della forma pura, l’arte avrebbe dovuto spogliarsi di qualsivoglia elemento connotativo e narrativo, non rappresentare nulla e rilasciare sole e semplici strutture.”
“I musei d’arte contemporanea ospitano per la maggior parte prodotti di questa tipologia: le dimostrazioni di talento sono dunque bandite e dall’arte all’architettura, dal design all’Ikea, tutto serve a far prevalere la dittatura del minimalismo, dove le cose non devono dire nulla perché non hanno proprio nulla da dire.”
Fatta la diagnosi, ecco la terapia:
“…l’artista è prima di tutto un artigiano cui sta a cuore il lavoro ben fatto di per se stesso… Torna il criterio valutativo delle ore di lavoro, perché i tempi lunghi migliorano e impreziosiscono l’opera finita.”
“Evviva il vecchio ^homo faber^: è lui l’artista nuovo del terzo millennio.”
”Minimalismo, arte povera, concettuale hanno imposto la strategia di un prodotto globalizzato, sempre uguale in ogni angolo della terra; l’International Style ha ucciso l’emozione estetica e il bisogno di contemplazione.”
“…si recupera invece il tipico, la materia del luogo e della tradizione, principale antidoto al brutto indifferenziato.”
Che dire? Lascerei la terapia al suo incauto destino di rincorrere la contemplazione ma, la diagnosi ahimè, seppure semplificata e complice in questo caso di una cura preconcetta, tocca nel vivo una condizione generale dell’arte che non può più essere trascurata con indifferenza. È in questione il rapporto dell’arte contemporanea con la società civile, nel quale la sacrosanta indipendenza dell’espressione artistica, in un mondo privo di pressioni ideologiche, si sta traducendo in puro evento autoreferenziale destinato a pochi addetti; i molti sono esclusi, malgrado una sempre crescente domanda di prodotti artistici, conseguenza della voracità che la crescita economica ritiene necessaria alla sopravvivenza dell’economia di mercato. Un’economia che non si fa scrupolo di accedere a tutte le risorse sociali e culturali, traducendole in merce da vendere ad una clientela sempre più numerosa che, nel migliore dei casi, concepisce l’acquisto dell’arte come un salvagente del proprio denaro. Ciò che importa, quindi, è l’integrità del salvagente indifferentemente dal contenuto; proprietà affidata ai soli strumenti di autotutela del mercato che, sebbene soggetti a dura critica dopo l’ultima crisi finanziaria, nel mondo del mercato d’arte continuano a determinare il valore degli scambi, custodendo al proprio interno gli attori del proprio sistema di potere culturale e finanziario: critici e mercanti, garanti e garantiti.
Sebbene il ruolo della critica sia la determinazione della qualità delle opere – e questo indipendentemente dal loro valore venale – nessuno può negare che l’espressione di un giudizio di valore possa determinare o meno la fortuna di un artista o di un collezionista. E quando ci sono di mezzo i denari, in taluni casi tanti denari facili da realizzare, chi ha la capacità d’isolare il traliccio dell’indipendenza di giudizio dalla scarica elettrica dei cavi d’alto voltaggio della speculazione finanziaria?
La convinzione che “…l’assenza di talento… ha dato la stura a migliaia d’impostori e incapaci…” è sempre più diffusa in persone della società civile che hanno titoli e certificati sufficienti da rivendicare con pieno diritto un posto tra gli artefici del nostro attuale contesto culturale. Capaci di un giudizio autonomo, essi sono poco disposti all’indulgenza verso il valore di un’arte che oggi si può indubbiamente definire facile.
Contesto culturale che consegna all’arte contemporanea un luogo storico diverso da quello che ne ha segnato le fortune durante tutto il novecento. Contesto che pretende una risposta differente da quelle già note, pena la deriva reazionaria del tradizionalismo di cui il testo di Sennet è sintomo e testimonianza.
Personalmente non credo che per guarire un’assenza narrativa occorra per forza rifarsi all’homo faber del rinascimento. Esperienze come quella della transavanguardia, malgrado l’esito teorico deludente – dovuto al compito essenzialmente accessorio d’abbigliare gli anni dell’edonismo di fine secolo, come è stato per tutto il movimento postmoderno – sono prova di tentativi occorsi per richiamare al racconto e alla scrittura gli attori dell’espressione artistica contemporanea.
È indubbio, d’altronde, che il peso etico dell’attuale condizione sociale diverga abbondantemente da quella degli anni cinquanta, ottanta o novanta. Sono cambiati i giudizi di valore e i presupposti in base ai quali questi vengono pronunciati.
Quale senso ha ancora, quindi, la provocazione puramente scenica senza un briciolo di scrittura? Hanno senso tale la cronaca, la banalità e la quotidianità, espresse in modo sterile, da surrogare tutt’ora la poesia?
Una recente teoria del linguaggio ci ha dimostrato che una presenza è raccontata molto meglio da un’orma, da una traccia, che non dalla descrizione puntuale di chi l’ha prodotta. L’orma mette in moto l’intelligenza, l’immaginazione, la poesia, legandola profondamente alla realtà d’un fatto, d’una presenza, senza la necessità della sua pedissequa rappresentazione che non ne coglie né il momento, né la postura, né l’andatura. Per questa ragione l’essenza della vita nella sua completezza è nelle tracce che lasciamo, è la nostra scrittura, senza la quale non esiste testimonianza viva, perché solo la scrittura continua a vivere dopo la nostra scomparsa.
Se l’arte perde la capacità di parlare della e alla realtà contemporanea, continuando a esprimersi con strumenti teorici e concettuali che costringono la scrittura ad un ruolo marginale se non inesistente, fallisce il suo scopo principale e diventa un puro e semplice articolo merceologico, destinato al costoso sollazzo di pochi illusi, curatori di musei compresi.
Nessuno vuole censurare un’arte facile da riprodurre ovunque a basso costo, ripetibile a piacimento e accessibile a chiunque, nel quale l’unico elemento discriminante sia il significato della comunicazione.
Ma quest’arte c’è già ed è la pubblicistica, che vale per l’efficacia mercantile del suo messaggio, criterio ben diverso da quello con cui giudicare l’unicità della scrittura di un quadro, per esempio, di Monet.
Scambiare ruoli e criteri non aiuta la comprensione e favorisce solo le fortune dei personalismi, in barba alla spersonalizzazione dell’arte che ne ha ispirato l’azione.
Vi lascio quindi a quest’invito di fine anno, che coinvolge non solo l’arte figurativa ma l’intero sistema delle arti, architettura compresa: prendiamo le distanze da un minimalismo modaiolo e da un concettualismo facile che hanno portato il design all’omologazione generale e le abitazioni a interpretare inutili atmosfere taciturne distanti anni luce dal frastuono del presente.
Buon 2010 a tutti.