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Storia e Critica

IN/ARCH compie 50 anni

26 ottobre l’IN/ARCH ha celebrato i cinquant’anni di attività. Nella relazione del suo presidente Adolfo Guzzini si leggono le ragioni di un rinnovato impegno per gli anni a venire.
L’impegno dell’IN/ARCH per il futuro è atto sincero sicuramente meritevole e, per questo, all’Istituto va il mio consenso incondizionato. Consenso che però non mi dispensa da alcune osservazioni critiche che mi permetto di suggerire.
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In sintesi, l’IN/ARCH dichiara principalmente per il futuro il proposito di “una rinnovata campagna per rifondare una dimensione etica del costruire”. Principio palesemente condivisibile ma, se mi è concesso, non privo di aspetti ambigui.
La parola etica, in fondo, definisce un luogo della coscienza dove tutti vorrebbero accomodarsi, malgrado enormi differenze culturali che tendono a contraddirne senso e significato. Ogni comportamento, infatti, essendo suggerito da un preciso indirizzo culturale, destina all’aspirazione etica un ruolo oggettivamente subalterno. Mi chiedo quindi: ma di quale etica si vuole parlare se non si specifica e ribadisce una chiara collocazione culturale? Tema questo che rimane problematico e principale, e che Bruno Zevi, fondatore dell’Istituto, nel suo discorso inaugurale del 26 ottobre 1959 così affrontava, definendo l’iniziativa nel suo aspetto più generale e importante: “Di che si tratta? Semplicemente della sorte degli intellettuali in una società condizionata dai mass-media e quindi dalla cultura di massa; segnatamente, fra gli intellettuali, della sorte di coloro che professano l’architettura nel quadro della produzione edilizia […]. Si tratta insomma di riesaminare la struttura della nostra professione nella società contemporanea, nell’epoca della seconda rivoluzione industriale e dell’energia atomica.” Oggi, bisognerebbe aggiungere, “e nell’età della rivoluzione informatica”.
La qualità architettonica, diretta conseguenza di quell’approccio etico del costruire che è nelle intenzioni dell’Istituto, non può appartenere semplicemente al proposito di volerla ostinatamente perseguire. Occorre che questa sia impianta su un robusto e preciso telaio culturale. L’idea di qualità che personalmente perseguo, infatti, non è quella che persegue un qualsiasi cultore della tipologia post o premoderna. Questo dato mi esclude da ogni appartenenza a organizzazioni sociali che non dichiarino apertamente la loro distinta posizione culturale, siano essi gli ordini professionali o le varie associazioni di categoria che dovrebbero concorrere al rinnovamento e progresso dell’architettura (Moderna? Antica? Postmoderna? Razionalista? Organica?).
Occorre quindi una scelta coraggiosa, che indichi oltre gli aspetti logistici, funzionali e contingenti della professione soprattutto le linee formali e linguistiche da praticare pena l’esclusione. Solo con questo principio sarà possibile chiedere efficacemente, per esempio, al sistema bancario del credito di favorire e promuovere principalmente progetti la cui qualità verrebbe certificata dall’istituto in base a regole chiare, condivise e soprattutto linguisticamente coerenti.

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Se il fine è la qualità dell’architettura (secondo i criteri suddetti) non è importante che questa venga realizzata da diverse componenti professionali. Anzi, nella realtà italiana la condizione necessaria affinché tale proposito possa avverarsi – ed è questa, credo, l’intuizione fondamentale di Bruno Zevi nel suo discorso inaugurale – sta in ciò che viene realizzato e non in chi ne deve avere titolo e competenza. L’importante è che vengano prodotte architetture con caratteri linguistici e formali, oltre che funzionali ovviamente, di rilevante, chiara e indiscussa qualità secondo i criteri culturali dell’associazione. Non importa se questi siano prodotti dalla mente di un architetto formalmente tale. Architetto è chi produce un’opera d’architettura non chi formalmente detiene un titolo che tale lo definisce. Ne discende come corollario: l’inutilità del valore legale della laurea in architettura e l’illegittimità teoretica dell’ordine, quale unico referente obbligatorio di un’attività professionale.
Questo è il solo modo di ricucire il rapporto tra economia e cultura dove, alla sempre più pressante necessità di trasparenza e certezza pretesa dall’una, risponde la più totale incertezza e confusione dell’altra.
Bruno Zevi, come sempre profetico, così diceva:
“Il verdetto è automatico, la diagnosi chiarissima: infranto il rapporto fra economia e cultura, l’architettura è in stato di paralisi. Circolo vizioso. Nessuno di noi, da solo, ne esce più: non il professionista che, malgrado tutto, deve campare; né lo storico d’architettura, costretto ad apparire non un alleato degli architetti moderni, ma un loro fustigatore; né il costruttore, che sente ogni sua iniziativa giudicata negativamente, quasi l’intento imprenditoriale fosse a priori deplorevole.
Non ne esce l’amatore di architettura, obbligato a ripiegare sui romanticismi nostalgici della vecchia Roma, della vecchia Milano, della vecchia Napoli, tagliato fuori da una vera collaborazione con l’attività moderna. Non ne escono i geometri considerati schiuma della terra, rifiuto, da ingegneri e architetti che spesso compiono obbrobri assai più vistosi dei loro. Non ne escono i banchieri, i controllori del credito, a cui nessuno dice dove, quando, come i finanziamenti dovrebbero essere concessi per risultare più utili. Non ne esce l’amministratore locale, cui l’urbanista consegna un piano regolatore che nessuno vuole, che gli operatori economici e i costruttori per primi, ma non ultimi anche gli ingegneri e gli architetti, coadiuvano a sabotare. Non ne escono i parlamentari e gli uomini di governo, sollecitati in direzioni diverse e spesso contrastanti da architetti, ingegneri, costruttori, operatori economici, giornalisti, critici, amministratori locali. Insomma, è la sclerosi dell’architettura come atto di cultura integrata. Il divario tra cultura ed economia è divenuto un baratro, e allora la cultura si ritira in astrazioni, cessa di essere engagée, cade nel solipsismo e nel pessimismo, mentre l’economia si trasforma in bruta speculazione e, là dove incrocia la politica, contribuisce alla corruzione e al sottogoverno.”(Discorso inaugurale del 26 ottobre 1959)


50 ANNI IN/ARCH – ROMA 26 OTTOBRE 2009
intervento del presidente Adolfo Guzzini

Cari amici,
la storia dell’in/arch è storia dell’architettura italiana ed è storia dell’industria edilizia italiana.
Nato 50 anni fa come luogo di incontro tra progettisti, costruttori, produttori di componenti, amministratori pubblici, uomini di cultura, il nostro istituto ha percorso mezzo secolo di storia italiana mantenendo questo suo carattere identitario. Un’identità unica nel panorama nazionale. Il libro che finalmente siano riusciti a scrivere documenta oltre 3000 iniziative fatte dall’IN/ARCH, diffuse su tutto il territorio nazionale. 3000 iniziative che raccontano, di fatto, un pezzo di storia italiana attraverso un’angolazione particolare: quella delle politiche edilizie e delle politiche di trasformazione del territorio.
Ma l’IN/ARCH non è solo la sua storia. È anche, e sopratutto, il suo impegno di oggi e di domani. Diceva Bruno Zevi che i convegni o si fanno per modificare la situazione politica o non si fanno. È quindi giusto che in questa occasione di festa torniamo a ricordare i problemi che abbiamo di fronte e le proposte che l’Istituto elabora per il loro superamento. La nostra attenzione alla necessità di fare sistema tra forze culturali e forze imprenditoriali per raggiungere risultati qualitativamente alti è quanto mai attuale. Lo è perché ci troviamo al centro di una grave crisi economica e di grandi processi di globalizzazione che hanno rimesso in discussione alcune forme di liberismo selvaggio. Lo è perché è sempre più evidente in Italia l’enorme costo economico e sociale derivato da una mancanza di cultura della qualità del territorio.
Il terremoto in Abruzzo, l’alluvione a Messina: ogni volta che ci si trova di fronte a calamità più o meno naturali, a scenari di crisi, la pubblica opinione si indigna e protesta, si elargiscono con abbondanza denunce e buoni propositi, il mondo politico annuncia profondi cambiamenti. Ma in questa materia la memoria degli italiani è quanto mai fragile. Nella gestione ordinaria delle cose si rinnovano pratiche di governo e di trasformazione del territorio del tutto ignare dei temi della qualità.
Lo sappiamo tutti: il territorio della penisola italiana è un territorio fragile, un territorio continuamente sottoposto a rischio di terremoti, frane, alluvioni, eruzioni vulcaniche, incendi ecc.
La fragilità dei nostri contesti sta anche nella straordinaria qualità di paesaggi e di realtà urbane frutto di secoli di sovrapposizioni dell’intervento dell’uomo.
In questo quadro qualsiasi intervento di trasformazione richiede grande qualità, a tutte le scale, dalla grande infrastruttura all’edificio residenziale, dai centri commerciali alla riqualificazione di una piccola piazza. Ogni intervento richiede capacità politica, competenze culturali e tecniche, elevate capacità industriali e, soprattutto, una diffusa cultura della responsabilità.
Nel nostro Paese troppo spesso si è pensato che tutto ciò non fosse necessario, che fosse sacrificabile sull’altare del mito del mattone fine a se stesso. Per questo l’IN/ARCH rilancia da qui, dalla celebrazione del suo cinquantenario, una rinnovata campagna per rifondare una dimensione etica del costruire. È una questione che riguarda tutti, politici, committenti pubblici e privati, professionisti, costruttori, immobiliaristi, produttori dì componenti. È una questione che riguarda i cittadini.
Gli italiani devono capire che o si costruisce con standard alti di qualità o si subiscono le conseguenze, sul piano fisico e sociale. E sia ben chiaro che quando si parla di qualità all’interno dell’IN/ARCH si pensa a tutti i passaggi della filiera che compongono il processo edilizio: domanda, esigenze, programma, norme, risorse, progetto, realizzazione, controllo, gestione.
Negli ultimi tempi sembra che la qualità di un edificio e, volendo osare, la qualità dell’architettura sia oramai riducibile solo alla sua efficienza energetica. Non c’è dubbio che questo sia un fattore decisivo e imprescindibile. Ma non può essere la panacea di tutti i mali. Sono parametri di qualità la sicurezza antisismica, l’innovazione tecnologica, la manutenibilità, la capacità di chi progetta di leggere e interpretare il contesto in cui opera, leggere e interpretare le esigenze della gente e, non ultimo, la capacità di operare scelte linguistiche in grado di esprimere i valori della contemporaneità.
Su queste basi L’IN/ARCH vuole spezzare la triste polarizzazione del dibattito a cui si assiste da troppo tempo nel nostro paese: da un lato il partito del fare ad ogni costo, anche con qualche sconto sui controlli e sulla qualità.
Dall’altro lato il partito del non fare a priori, dell’opposizione pregiudiziale ad ogni opera di trasformazione degli assetti esistenti del territorio, anche se tali assetti risultano fatiscenti e privi di qualsiasi valore. Tra il fare ed il non fare noi poniamo il problema del come fare.
Rilanciamo da qui la nostra azione: vogliamo essere riconosciuti come interlocutori e animatori culturali della trasformazione, anche in contrapposizione con la cultura dell’immobilismo e della finta tutela.
Per questo obiettivo mettiamo a disposizione il prestigio della nostra storia.
Una dimensione etica del costruire si rifonda a partire dalle opere pubbliche. Oggi, al contrario, sono proprio molte opere pubbliche ad essere i primi esempi di degrado, inefficienza, lunghezze burocratiche, incapacità gestionali.
C’è qualcosa che non funzione ed è ora di metterci seriamente le mani.
Le leggi, le regole non garantiscono da sole la qualità, ma aiutano a diffonderla.
Allora è giunto il momento di dire con chiarezza basta:
• alle gare d’appalto aggiudicate al massimo ribasso;
• alla marginalizzazione del progetto di architettura considerato un mero servizio e non un’opera di ingegno;
• alla selezione dei progettisti fatta sulla base di fatturati, di ribassi di parcella e di sconti sui tempi di esecuzione dei progetti;
• allo spezzettamento dell’iter progettuale tra mille soggetti diversi;
• agli elenchi prezzi che impediscono di adottare materiali e tecnologie innovative e di qualità;
• ad amministrazioni pubbliche che avviano opere senza definire con chiarezza quali obiettivi vogliono raggiungere, quanto potrà costare quell’opera; senza essere in grado di fornire al progettista un vero programma di progetto.
Si è scelto di eliminare la Direzione Generale per il Paesaggio, l’Architettura e l’Arte contemporanea dal Ministero dei Beni Culturali: allora l’IN/ARCH propone, qui, oggi, di istituire anche in Italia un organismo che esiste in Francia dal lontano 1977, dotato di autonomia finanziaria, direttamente collegato al Primo Ministro: la Missione Interministeriale per la Qualità delle Opere Pubbliche.
Lo scopo di questo ente è facilmente sintetizzabile: favorire il miglioramento della qualità architettonica delle costruzioni pubbliche.
Come? Prima di tutto lavorando su un fattore fondamentale del processo edilizio che da noi risulta quasi sempre trascurato: la programmazione. I francesi hanno pienamente compreso che il primo decisivo compito di una committenza pubblica è di capire fino in fondo cosa vuol fare, come lo vuol fare, con quali strumenti, con quali procedure, in quali tempi e con quali risorse economiche.
La corretta interpretazione di una domanda sociale di trasformazione, la sua codificazione e traduzione in documenti di programma chiari e completi è condizio sine qua non per la buona riuscita di un’opera.
Se manca questo approfondimento difficilmente si otterrà un risultato positivo; se la domanda è mal posta la risposta è quasi sempre inadeguata. Cosa farà questo organismo? Aiuterà tutte le pubbliche amministrazioni a elaborare la domanda, organizzare le procedure, gestire i processi pubblici di trasformazione del Territorio. Aiuterà anche a stabilire in modo univoco quali sono le opere pubbliche per cui rendere obbligatorio il ricorso al concorso di progettazione, come viene fatto in Francia.
Decidiamo una volta per tutte se concordiamo sul fatto che, per determinate tipologie di opere, il confronto fra alternative di progetto è il miglior strumento a disposizione per perseguire la qualità. Se la risposta è sì allora facciamo diventare il concorso una cosa seria. Aboliamo le gare di progettazione, aboliamo i concorsi di idee, facciamo in modo che il concorso serva veramente a scegliere il progetto che sarà realizzato. Su questo togliamo ogni margine di discrezionalità alle amministrazioni, aboliamo frasi del tipo “la stazione appaltante si riserva la facoltà di affidare al vincitore la realizzazione dei successivi livelli di progettazione”. La stazione appaltante sia obbligata a portare fino in fondo il progetto vincitore.
Da tutto quello che ho detto si trae una conclusione molto chiara: il Codice degli Appalti oggi in vigore in Italia non funziona, non aiuta a produrre opere di qualità, va radicalmente riformato. L’IN/ARCH è pronto sin da oggi a fare le sue proposte di modifica, chiare, concrete, circostanziate. Ma la dimensione etica del costruire chiama in causa anche molti altri fattori e molti altri soggetti. Occorre che costruttori e immobiliaristi comprendano che i margini industriali a cui si è fatto riferimento in questi anni sono incompatibili con una produzione diffusa di qualità.
Occorre che il mondo dei progettisti si riorganizzi con standard più vicini a quelli degli altri paesi europei superando la forte frammentazione dei nostri studi professionali. Sarebbe anche bene che molti di loro superassero l’idea che ogni progetto è l’occasione per produrre un’opera d’arte che rimarrà nei libri di storia e si ponessero al servizio di quella qualità diffusa che è lo strumento per migliorare la qualità dei nostri spazi di vita.
Occorre porre fine a questa prassi tutta italiana in cui tutti possono progettare tutto: geometri, periti industriali, periti agrari, ingegneri, professionisti senior e junior e, qualche volta, anche gli architetti.
Occorre anche dire con coraggio che l’Italia non ha bisogno di 140.000 architetti, mentre in Germania ce ne sono 50.000, in Spagna 33.000 e in Francia 27.000 e che il mondo universitario non può continuare a far finta che questo problema non esista. Allo stesso modo dobbiamo riconoscere che l’Italia ha troppe imprese edili, troppo piccole e troppo polverizzate.
Occorre infine porre mano, per semplificare e razionalizzare, alla montagna di norme, procedure, autorizzazioni, veti che governano nel nostro Paese le trasformazioni del territorio, tanto complesse e farraginose da non impedire certo lo sviluppo di fenomeni di abusivismo diffuso. Non possiamo più accettare che per avere un permesso di costruire in una grande città italiana si debba attendere mediamente un anno mentre in Germania ciò avviene in tre settimane!
Mi fermo qui.
L’IN/ARCH ha cinquant’anni e, pur tra tanti mutamenti e difficoltà, mantiene intatta la sua capacità di essere incubatore di proposte e di idee per migliorare le condizioni del fare architettura in Italia.
È una capacità che mettiamo a disposizione delle forze politiche, economiche, sociali di questo Paese.
Abbiamo questo obiettivo per i prossimi 50 anni. E, per dirla con le parole di Bruno Zevi, abbiamo coraggio, spregiudicatezza e visione per realizzarlo.
Viva l’Istituto Nazionale di Architettura.

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