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Storia e Critica

I guai di Tafuri

Perché riparlare di Tafuri, dopo anni che del critico sembrava essersi persa traccia? Potremmo rispondere con una battuta: perché, da un po’ di tempo a questa parte, stiamo vivendo in un periodo di crisi, di sfiducia e, anche, di ritorno della palude accademica. E, come sempre succede in questi casi, si rivendica, contro il presunto periodo di confusione e di anarchia precedente, il rigore e la teoria. Magari puntando sul fatto che il tempo trascorso faccia dimenticare i disastri che questo tipo di approccio aveva provocato.
Chi, come me, si è laureato verso la fine degli anni settanta, i disastri tafuriani li ha vissuti sulla propria pelle e sa quanto tempo c’è voluto per rimediarvi. Soprattutto per mettere alla luce il fatto che dietro il presunto rigore e la presunta costruzione teorica si celava una pochezza disarmante di concetti, spesso confusi ma presentati con un linguaggio esoterico che li spacciava come profondi, secondo una moda tipica di quegli anni. Quando poi questi concetti venivano ripresi dai tafuriani, il guaio era ancora peggiore. Come sempre accade, i discepoli sono peggiori, infinitamente peggiori, dei maestri, per quanto cattivi essi siano.
Quale è il principale equivoco tafuriano? E’ quello tipico della cultura marxista: consiste nel credere che si possa fare una critica all’ideologia e che, praticandola, si possano porre le premesse per un discorso qualitativamente superiore a quello – ahimè ideologico- della restante critica. Ammantandosi della veste dello storico al di sopra dell’ideologia ma in realtà facendo una critica operativa e cioè ideologica, Tafuri si è sbarazzato così di tutta la critica operativa fatta passare come ideologica: un vero colpo da maestro, reso possibile dal fatto che molti dei suoi avversari proponevano tesi talmente ingenue che non era difficile ridicolizzarle, mostrandone le debolezze. Ma – come è facile capire- le debolezze delle tesi altrui non costituiscono prova della forza delle proprie.
“Quali erano le tesi di Tafuri?” Ecco un bell’interrogativo al quale non è sempre facile rispondere. Da vero maestro nell’arte della polemica, Tafuri le proprie riusciva a renderle apparentemente inattaccabili perché sempre sufficientemente vaghe, polisense e inverificabili: esattamente il contrario di quanto sarebbe auspicabile per un corretto discorso scientifico. “Che vuole dire esattamente in questo brano Tafuri?” E’ una domanda che si può ripetere quasi per ciascuna sentenza della sua innervosente prosa. Che non è inintelleggibile, come vorrebbero alcuni, ma è artatamente vaga, oracolare e corazzata attraverso un terroristico apparato di note e di erudizione. Detto per inciso: ci sono voluti anni, dopo un così cattivo e affascinante maestro, per far capire che la scrittura critica doveva puntare alla chiarezza e non all’oscuro, alla forza delle idee e non al latinorum delle note dotte e delle citazioni astruse.
A cosa ha portato il tafurismo? A tre mostri: uno storico, uno filosofico e uno architettonico.
Il mostro storico ha divorato la critica: producendo una sfilza di discepoli che si sono persi nella ricerca del dato, scambiando questa con la critica. Basta vedere, in proposito, cosa è successo con la scuola di Venezia, che non ha prodotto nulla – ripeto- nulla di significativo da diversi lustri a questa parte. Con un fenomeno che, a cascata, ha interessato un po’ tutta la penisola, distruggendo lo stesso insegnamento della storia, dato in mano a una caterva di miopi eruditi che non sanno andare oltre il loro sempre più ristretto campo di specializzazione.
Il mostro filosofico ha divorato, poi, il pensiero scientifico e sperimentale. Le simpatie fenomenologiche di Tafuri e della sua cerchia, unite a rimasticature poststrutturali, hanno tirato fuori la peggiore sottocultura di matrice heideggeriana, con conseguente sopravalutazione di tutte le posizioni più reazionarie e tradizionaliste: soprattutto di quelle che vogliono vedere il costruire come un atto originario, che puntano alla feticizzazione dell’idea di luogo e al sospetto nei confronti delle moderne tecnologie. Per non parlare di quella cosa insopportabile che è la mistica dell’assenza: l’essere che gioca a rimpiattino dietro al fenomeno. Detto per inciso non è un caso che nella sua storia dell’architettura Tafuri dedichi tre o quattro righe, e per giunta imprecise, a Buckminster Fuller.
Il mostro architettonico ha divorato ogni poetica che non fosse autoreferenziale. Abbagliato da un preconcetto storiografico classicista – secondo il quale l’architettura deve per forza puntare a rappresentare il mondo nella sua pienezza ontologica- e avendolo capovolto in uno scacco continuo ( l’architettura, per quanto ci provi, alla fine scopre che non ci potrà mai riuscire), Tafuri ha privilegiato nella sua ricerca solo i lavori che cadevano – o che parevano cadere – in questa trappola: come quelli di Rossi, e di Eisenman, di Kahn, dei Stirling. Sottovalutando ricerche, meno autoreferenziali e proprio per questo più importanti, interi capitoli sono stati tralasciati. Quelli scritti dagli innovatori, dai creativi, da coloro che facevano sperimentazioni di avanguardia, dai professionisti per portare invece sugli scudi personaggi creativamente modesti: a partire da Gregotti e a finire in tutta una selva di veneziani e di milanesi dei quali oggi, per fortuna, non se ne sa più niente.
No, per carità, Tafuri lasciatelo riposare in pace. E se qualche americano, trainato da quel personaggio per molti aspetto deleterio che è Eisenman, vuole riscoprirlo, lasciateglielo fare. Così si accorgerà sulla propria pelle dei disastri che un certo integralismo ideologico, ammantato da critica dell’ideologia, e parallelamente una mistica religiosa, camuffata da materialismo, può provocare.

L’articolo è tratto dalla sezione “Scritti brevi” del sito di Luigi Prestinenza Puglisi, www.prestinenza.it



(Luigi Prestinenza Puglisi – 19/4/2007)

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