Paolo Bonolis | Il re era tosato; ora gli andava larga la corona e gli piegava un po’ le orecchie cui a tratti giungeva lo strepito odioso dei ceffi affamati. Sedeva, per darsi un po’ di caldo, sulla sua mano destra, arcigno, col suo culo pesante. E, lo sentiva, non era più lui: del padrone ben poco rimaneva, e l’amplesso era fiacco. Rainer Maria Rilke Il sonno della ragione genera mostri. Il suo pisolino professori d’architettura. Il sottoscritto |
Una volta, durante uno spettacolo di varietà di successo nel quale si confrontavano vaste categorie umane tra loro frontalmente contrapposte (per esempio: colti vs ignoranti grassi vs magri e, nel caso di cui vorrei dire, cornuti vs cornificatori) Paolo Bonolis, il tenutario della trasmissione, poneva domande di cultura generale ad un individuo che se ne stava ammollo dentro un cilindro di plexiglas, con la maschera da sommozzatore, le mutande a righe e una canottiera con sopra scritto “cornuto”.
“Lei – lo esortava amabilmente – dovrà, come rappresentante eletto tra i cornuti, rispondere a questa domanda: qual era il vero nome del pittore conosciuto come Caravaggio?”
E quello, cornuto di cultura, rispose, pensate, quasi esattamente (Merici anziché Merisi, errore veniale, in verità, anche per un cornuto in smoking, figuriamoci per un cornuto in mutande). Di quest’inattesa epifania di cultura televisiva hanno potuto beneficiare milioni di italiani (alcuni dei quali perfino più ignoranti del sottoscritto). Essa testimonia dell’efficacia della televisione come strumento di divulgazione culturale e fa riflettere sulla necessità di una modernizzazione nei metodi dell’insegnamento. Se a scuola la professoressa di Storia dell’arte avesse fatto lezione in guepiere e frustino portandosi al guinzaglio il marito in costumino borchiato e cappuccio di cuoio chi di noi non saprebbe, oggi, disquisire con profondità e proprietà di termini su Piero Della Francesca e Paolo Uccello?
Se, d’altra parte, il professore di filosofia si fosse degnato di venirci a spiegare Leibniz in vivace contraddittorio polemico (lancio di stoviglie, sputi e improperi) con sua moglie chi di noi, oggi, non avrebbe scritto un saggio risolutivo sulla monadologia?
La verità è che siamo vittime di una concezione della cultura seriosa e antiquata.
Speriamo che la signora Moratti (che è telespettatrice attenta o non si acconcerebbe come si acconcia) sappia tradurre tutto questo in concreto ammodernamento: una collezione di vibratori in dotazione alla bidella? Le tette di Mascia del grande fratello al posto della tavola periodica? Il merolone al posto del mappamondo sulla cattedra del professore di geografia? Non saprei. Proviamo. Se son rose fioriranno.
Intanto, però, i professori già danno positivi segnali di vitalità. I professori d’architettura, che tra tutti (lasciatemelo dire con legittimo orgoglio) sono i più eleganti e alla moda, già hanno preso il loro posto in prima fila.
Vogliono divertire e divertirsi, com’è giusto, senza per questo rinunciare ad insegnare.
Così quest’anno accademico hanno deciso di cominciarlo all’insegna del buonumore: con una bella letterina anzitempo a Babbo Natale.
Si tratta di un notevole frutto del temperamento italico ed io vorrei che la si diffondesse in tutte le scuole della nostra bellissima repubblica (o quello che è): lo studente potrebbe anzi impararla a memoria e ripeterla all’esaminatore presentandosi con il libretto in una mano, la trombetta elastica nell’altra e un naso finto.
Ad ogni virgola si fermerebbe a soffiare nella trombetta. Sarebbe un bel modo di prepararsi alla professione d’architetto per come si va configurando. Un modo divertente e perfettamente adeguato.
Visto che loro, i professori, si sono divertiti a scriverla io pure mi sono divertito a leggerla: che volete, si fa quel che si può. Loro pubblicano, seminarizzano, insegnano, conferiscono, si riuniscono, giudicano, concorrono. Io, quando posso, leggo.
“L’architettura italiana attraversa una situazione drammatica”. Comincia così la missiva. Senza mezzi termini. Non si può dire che non si afferri il toro per le corna.
Do un’occhiata al calendario: settembre, l’anno è il 2005.
Controllo di nuovo: settembre, 2005.
MI faccio i conti con le dita. Cazzo, ci ho cinquant’anni. Uno se lo scorda, sono cose che succedono. Ma il calendario è lì apposta. Tu guardi e ti ricordi. Che faccio io nella vita? L’architetto. Ho fatto altri mestieri? No. Sempre l’architetto ho fatto (finta di fare). Ci fu, è vero, un periodo che suonavo la chitarra, ma non credo che conti, in questa sede. A questi cinquant’anni ne togliamo una metà: per svezzamento, infanzia, adolescenza, università e cazzeggiamento. Ne restano pur sempre venticinque. Venticinque anni, dunque, che bazzico l’ambiente. Ma questa, che io ricordi, è la prima volta che 35 professori assurgono in coro a difesa dell’architettura in Italia. Non dico, per carità, che ciascuno di loro non l’ha, nell’intimità del suo cuore, difesa sempre e che non la difenderà in eterno. Non mi permetterei mai. Ma questa è la prima volta che le loro voci risuonano come una sola con questo tono dolente e preoccupato. Sta qui la magistrale comicità del gesto. Questi professori sapevano benissimo che, con tutta la buona volontà, nessuno avrebbe potuto prenderli sul serio, ma (ecco da cosa si riconosce il magister) hanno ugualmente sottoscritto.
Ecco, io mi ricordo (…vedete?già mi viene da ridere…) insomma…mi ricordo che me ne andavo all’università fischiettando “Fire and Rain” di James Taylor e il professore cominciava la sua lezione comunicandoci che la situazione dell’architettura in Italia era drammatica e che di fare gli architetti ce lo potevamo scordare. Ricordo una mitica lezione di un noto professore e gestore di rivista (allora come oggi…sempre la stessa rivista per trent’anni…): “Senta, lei è ricco di famiglia?” “No sono povero in canna” “E allora perché cazzo si è messo in testa di fare l’architetto?”.
Così controllo di nuovo il calendario. “2005, settembre”. Mi rifaccio i conti ricorrendo al pallottoliere dismesso di mio figlio. E’ così per davvero…io ci ho cinquant’anni, siamo nel 2005, e ai tempi di “Fire and Rain” ne avevo venti.
Erano i tempi in cui Paolo Portoghesi gestiva Controspazio.
Dopo qualche annetto ero un “giovane architetto italiano” (ma già avevo questa faccia da skinhead attempato alla quale mi attengo tuttora per timore che me ne tocchi una ancora peggiore).
Nell’isola in cui vivo ( e non solo…ma io ero qui e di questo parlo…) a quel tempo, sembrava ci fossero fermenti interessanti e talenti mica male: in perfetta concomitanza (anzi, forse perfino in anticipo) rispetto a quei fermenti ed a quei talenti che, portati in palma di mano dalle riviste giuste, avrebbero poi costituito quella che sarebbe diventata celebre come “Scuola portoghese”. Le riviste italiane e molti dei professori che oggi piangono amaramente sul dramma dell’architettura italiana se ne sono allegramente infischiati. Come biasimarli? Allora caracollavano in serpa alle loro splendide riviste, organizzavano le loro bellissime bi e triennali e decidevano loro come gestire le cattedre, le pubblicazioni, i convegni, i seminari. Hanno dedicato a quei fermenti qualche santina (tre o quattro francobolli di due centimetri per tre su Casabella, qualcosina da qualche altra parte…) e un paio di amabili paternali cui seguiva una pacca sulle spalle e l’esortazione a studiare ancora perché, occorre capirlo bene, “Ars longa…”. Solo un banalissimo, episodio, che però fa capire com’è stata gestita la “cultura architettonica” in Italia. Da allora sono passati altri vent’anni. Certo erano bei tempi, per qualcuno. Gregotti, ogni mese dalla sua Casabella ci regalava un editoriale che nessuno leggeva (e chi sarebbe stato talmente eroico da farlo?) ma che tutti citavano e, noblesse oblige, polemizzava con Portoghesi che, per parte sua, aveva tirato fuori dal cilindro la storia come amica e scriveva libri con il cuore in mano: tra una polemica e l’altra ambedue costruivano tutto quello che c’era da costruire e organizzavano tutto quello che c’era da organizzare. Erano bei tempi…ma, soprattutto, niente letterine: non ce n’era bisogno, ci si divertiva diversamente. Babbo Natale il carbone non lo portava mica a loro. Per quelli come me, invece, la situazione era esattamente come quella attuale, ed è rimasta tale e quale nel corso degli anni novanta e dei primi anni del millennio. La nostalgia perciò, in questo campo, è roba per ricchi. Io non me la posso permettere. Siamo passati, giusto per restare al fischio, da James Taylor , a Sting e giù fino a Michael Buble; mentre altrove si accudivano i nuovi talenti e li si metteva alla prova qui non s’è mossa foglia: ma che minchia dovremmo rimpiangere?
Concorsi? Neanche a parlarne (e anche se si fanno si sa chi deve vincere, tanto che preferisco, e di gran lunga, le giurie costituite dal sindaco e dal capo ufficio tecnico a quelle in cui c’è anche uno solo di questi professionisti della firma, perché, allora, state certi che non c’è speranza).
Incarichi? Non scherziamo con le cose serie.
Ora, settembre 2005, questa fioritura di firme.
Molti tra i firmatari sono o sono stati professori e presidi di importanti facoltà universitarie italiane. Dov’erano? Che facevano? Perché non hanno cominciato per tempo a scrivere le letterine?
No, niente letterine fino ad oggi. Per trent’anni, evidentemente, tutto è andato benone.
Per i venticinque anni che mi competono sono stati solo cazzi miei e di quelli come me. Mai che fossero anche cazzi loro. E oggi, porco cane, ecco invece il professor Gregotti che s’inalbera, ecco il professor Portoghesi che s’indigna, ecco perfino un giovanottone, anche lui professore, figlio di papà ma ancora quarantenne (con la rivista già incorporata da quando ne aveva trenta) che si toglie la scarpa e la sbatte sul tavolino. Pure a lui manca il torrone nella calza. Da non crederci. Se mi avessero detto che avrei avuto l’onore di averli al fianco nelle barricate non ci avrei mica creduto. Perciò, visto che loro non lo fanno, mi dimetto io e mi levo l’elmetto. Firmate pure, divertitevi, io mando i miei saluti a tutti voi. In particolare a qualche vecchio conoscente di cui leggo la firma in calce a quella lettera. Non se la prenda se gli dico francamente che, per me, avrebbe fatto bene a non firmarla. Leggendola non si può non avere la netta impressione che si stia semplicemente tirando acqua al proprio mulino e che lo si faccia, per di più, senza neppure quel poco di stile che si richiedeva agli accademici di vecchio stampo.
E anche se, come credo, non lo fa in mala fede la sensazione sgradevole permane: vuol dire che senza volerlo, con la sua carità pelosa, sta prendendo per il culo se stesso, “la sua generazione”, me, “la mia generazione” e, in ultimo quelle “nuove generazioni” tirate in ballo perchè buone a tutti gli usi e, soprattutto, ottime come carne da macello quando c’è da fare i furbi.
Ragion per cui ringrazio e, cordialmente, rispedisco al mittente: che gli incarichi se li fottano Gregotti, Portoghesi e Casamonti oppure Fuksas, Libeskind e la Hadid, per me, ve lo assicuro, non cambia assolutamente nulla. Anzi, francamente, sospetto non cambi nulla nemmeno per quella cosa che questi professori si ostinano a chiamare “la tradizione dell’architettura italiana” identificandola, del tutto inopinatamente, con se stessi.
(Ugo Rosa – 21/9/2005)