Caro Paolo
Ho letto il tuo commento, incisivo e puntuale, al mio scritto apparso su arch’it.
Probabilmente c’e’ stato qualche malinteso, che mi piacerebbe chiarire.
Anche perché la parola minimalismo e’ ambigua. E io ho cercato di giocare
con l’ambiguità della parola.
Se per minimalismo intendiamo il desiderio di ridurre i problemi e fare finta che non esistano, non c’e’ dubbio: e’ una tendenza retrograda. Da combattere.
Ma se con questa parola intendiamo due o tre altre cose, forse e’ un termine che ci può essere d’aiuto.
Prima però di andare avanti, vorrei premettere un esempio. Per nuotare con una certa abilità occorre saper coordinare tutti i movimenti e ridurre i gesti che non sono necessari. Agitarsi non vuol dire nuotare. Chi si agita sprecando molte energie, alla fine tende ad annegare. Per nuotare a delfino, per esempio, occorrono pochi movimenti, ma sincronizzati e ben eseguiti.
Adesso, mi chiedo, nuotare a delfino e’ minimalista? Risponderei: si e No. Se intendiamo il termine in senso riduttivo e’ minimalista solo chi fa il morto. E come tale lo combattiamo e lo seppelliamo.
Ma nel senso che intendo io, c’e’ un certo minimalismo. Cioe’ uno sforzo di riduzione in funzione del perseguimento di un obiettivo.
Perdonami l’esempio. Che come tutti gli esempi calza e No. E torniamo all’architettura e al mio intervento pubblicato su arch’it ( nota, ti prego, che e’ un intervento mirato a stimolare un dibattito e non un articolo che esprime con forza punti precostituiti).
Innanzitutto metteva in evidenza un fatto piuttosto che esprimere un giudizio. Che ci sia, oggi, un movimento, anche di gusto, verso la semplificazione, mi sembra un fatto inoppugnabile. Basta vedere le nomination al premio.
Rimane adesso da vedere se il fatto sia positivo o negativo.
Io credo che lo sia per due ragioni. Mentre per un’altra No.
Ragioni a favore: innanzitutto si sfata un equivoco, che l’architettura debba a tutti i costi rappresentare la complessità piuttosto che risolvere in maniera semplice i casi complessi. E’ complesso galleggiare ma e’ semplice lo stile a delfino. I fenomeni naturali sono complessi ma la teoria della relatività e’ semplice, almeno nella sua enunciazione matematica. Il secondo motivo e’ che si sfata l’equivoco digitale = Gehry o Eisenman. O anche Zaha Hadid o Koolhaas. Sono linee di ricerca importanti, importantissime. Ma parziali. Così come all’interno del meccanico ci furono
linee di ricerca diverse – Chareau da Buckminster, Terragni da Wright, Le Corbusier da Mies – così il digitale ha linee di ricerca differenziate.
Alcune delle quali lavorano con concetti quali l’immaterialità, la trasparenza, le interrelazioni piuttosto che con il gesto, gli spazi avvolgenti e le forme bloboidali.
E veniamo all’aspetto negativo. Mi rendo conto che dietro l’elogio del minimalismo si possa intravedere lo spettro di un ritorno all’ordine. Che non auspico. E mi fa paura. Si puo’ essere complessi e fare cose sublimi: il Guggenheim di Bilbao o il museo ebraico a Berlino. Basta, per tornare all’esempio del nuoto, non fare movimenti idioti e non sollevare acqua piuttosto che muoverla.
Forse al posto della parola minimalismo avrei dovuto scegliere la parola riduzionismo o altre.
Ma era un temine azzeccato che mi serviva anche per esprimere la mia insofferenza verso due cose: Innanzitutto il gusto della complicazione per la complicazione. Vedendo le sfogliatelle elettroniche di Greg Lynn, mi chiedo se questo sia il futuro.
Mi sembra che, attraverso Lynn, si profili una linea di ricerca post Portoghesiana. Un organicismo elettronico a buon mercato.
E poi il rifugio nel disegno. Questa volta elettronico. Complice quel Peter Eisenman che fu compagno di strada di Rossi e di Grassi ma, soprattutto, della peggiore Tendenza italiana e i cui formalismi hanno un fondo estetizzante e reazionario che emerge, a ben guardare, da tutto il suo
ambivalente percorso artistico e teorico ( alcuni di questi nodi ho provato a delinearli in Silenziose Avanguardie).
Ecco: un po’ di minimalismo, cioè di un atteggiamento che mira a ottenere il maggior numero di fini con il minor spreco di mezzi, può essere la ricetta per farci pensare a quanto il tema dell’architettura digitale sia complesso.
Essere laconici non e’ poi così male. Ma se guardi bene, nel mio intervento già intravedevo un pericolo per il minimalismo. E ciò che diventasse semplicemente un fenomeno estetizzante e sensuale. Un’estetica iper-anoressica per sensualoni disimpegnati. Cosa che, ovviamente, non
possiamo accettare, se non come momentaneo diversivo.
Spero che questa lettera appaia in Antithesi accanto alla tua lettera aperta.
Grazie della attenzione. Spero di vederti a Milano dove conto di dibattere e approfondire questi ragionamenti.
Caro Sandro
Continuo la lettera a Paolo.
Mi sembra che l’elettronica stia mettendo in evidenza come il superamento della geometria non sia necessariamente geometrico. Flussi, interrelazioni, rapporti tra persone non hanno bisogno di essere rappresentati con forme complesse nello spazio.
Altro che nuova prospettiva e nuova oggettivizazione. Siamo in presenza di un modo nuovo di concepire lo spazio come luogo dell’interrelazione. La geometria in tutto ciò forse ha un ruolo minore. Importante ma minore.
Mi spiego: questo computer che mi collega a te cambia lo spazio più di mille forme bloboidali.
E questo non e’, in un certo senso, minimalismo?
Noi, credo, pensiamo ancora troppo l’architettura in forma di materia.
a presto
(Luigi Prestinenza Puglisi – 10/5/2001)