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Vati e gagà

Di vati e di gagà questo paese ne ha sempre prodotti. Ma è anche prodigo di pupattoli alla forfora che brillantemente assommano nella loro singola e venerabile persona ambedue queste caratteristiche: i vati-gagà. La storia dell’editoria nazionale, di conseguenza, pullula di pagine scritte con una prosa monumentale e gonfia di gas come un pallone aerostatico che, appena lo pungi con lo spillo, schizza via afflosciandosi in un sibilo prolungato e lamentoso al cui richiamo miriadi di altri gagà e di altri vati accorrono.
Li senti che si passano parola: “Che testa!” dice uno, “Che cuore!” fa eco l’altro “Che polmoni, Che spirito libero!” chiosa un terzo. Si fa quel che si può, e ognuno ci aggiunge del suo.
Il mutuo soccorso dei vati e dei gagà è un tipo di volontariato che in Italia ha un grande passato e il cui presente lascia intuire che, di certo, in futuro ci sarà (per loro) da spassarsela.
E’ proprio nel presente, infatti, che si colloca un caposaldo di questo genere letterario di pronto intervento, a metà tra la posta del cuore e il memoriale della nonna; però con appendici bibliografiche (in cui Adorno se ne sta, mogio mogio, al fianco di Pierluigi Cervellati). L’autore, vate e gagà di prim’ordine, si chiama Sgarbi Vittorio.
Mi sono già occupato, una volta, di un suo spettacoloso articolo di giornale, ma, in realtà, ne so poco e, devo Ammetterlo, questo gagà (e vate) mi incuriosisce: ho chiesto in giro, mi hanno detto quel che già sapevo, che cioè egli è noto come gagà televisivo e, secondariamente, come homme de lettres. Ho provato ad approfondire:
Che mestiere esercita questo signore?
Questo signore scrive e parla in tv.
Di cosa?
Di tutto.
I conti tornano.
Ah! Fa anche politica.
Perfetto, l’operazione non dà resto: il registratore di cassa scampanella che è un piacere.
Sgarbi Vittorio: professione vate (e gagà).
Premetto che non ho interessi antropologici, né passione per i rotocalchi e che il libro di un homme de lettres che fa politica, scrive e va in tv, in linea di massima, non è roba che fa per me. Perché ne scrivo allora? Perché quest’homme de lettres televisivo nel corso delle sue sgroppate retoriche è finito, sul suo asinello bardato da destriero, nel campo dell’architettura e dell’urbanistica, già terreno di pascolo per innumerevoli altri asini. E siccome io sarei architetto (homme de lettres permettendo e anche se ammetterlo è dura), la cosa m’incuriosisce.
Ho dunque letto il libro. S’intitola “Un paese sfigurato”, un titolo certamente notevole.
Comincia a lume di candela (pag.1): “Il bene più prezioso per un luogo è…il suo essere quello che è stato”. Ecco una cosa che stimola e fa riflettere. Dunque il bene più prezioso, mettiamo, per un mondezzaio sarebbe quello di restare per sempre ciò che è stato, cioè un mondezzaio. Questa metafisica della permanenza è suggestiva e apre prospettive interessanti. Per esempio quella che il bene più prezioso per un cretino sarebbe di restare in eterno un cretino. L’espediente è vecchio come il cucco: il vate avanza il piedino, indica lontano, volge l’occhio verso un punto imprecisato dell’orizzonte e, mentre la palpebra freme, incide tra le nuvole uno di questi lacrimosi ultimatum. Poi confida nella dabbenaggine di chi legge; e siccome i suoi lettori e lui si meritano a vicenda, il gioco è fatto. E’ normale; queste frasi ad effetto, che non vogliono dir nulla (ma esplodono come mortaretti e tengono l’utente con il naso per aria) sono l’ambito di specializzazione dei vati-gagà, pensate al capostipite, Gabriele D’Annunzio. Alla luce di questa fulgida stupidaggine iniziale il libro brancola nella penombra per un centinaio di pagine abbattendosi, sul filo delle ultime tre righe (pag. 95) sopra un bersaglio che, per fortuna, conoscevamo a memoria: “…continuiamo ad assistere impotenti al trionfo dell’architetto distruttore impunito e del politico che lo fiancheggia…Figure modeste, incapaci di percepire lo spirito, l’armonia, il senso della storia. Personaggi che non guardano, non vivono, non ascoltano il respiro d’Italia, ma perseguono il malefico disegno della sua cancellazione irreversibile.”.
Il respiro d’Italia.
Se l’Italia non fosse il paese dei vati e dei gagà per un’espressione del genere dovrebbe essere previsto il ripristino delle sculacciate. Invece a chi le scrive si assegnano poltrone di sottosegretario e, prima o poi, lo si farà ministro. Comunque, tra quell’inizio e questa conclusione (a provare che “il respiro d’Italia” non è un incidente di percorso) si trovano passi come questo (pag. 30): ”…non è eccessivo affermare che la conquista culturale più significativa degli ultimi anni è stata l’attività di Carlo Petrini e del suo “Slow food”. Il recupero di sapori locali per combattere la massificazione dei gusti, diffondendo i cibi prodotti in aree ristrette, dimostra che si può utilizzare vantaggiosamente il mercato per difendere un patrimonio che altrimenti sarebbe completamente disperso. I “Fast food”, peraltro, rappresentano esattamente l’equivalente della degenerazione nella lingua, nella musica, nella letteratura.” che ci spiegano perché il respiro d’Italia è così pesante: questo succede quando ci s’ingozza di lasagne. Ma se il gagà si muove tra osterie e luoghi di svago il vate pensa alla cultura e frequenta le persone giuste. Infatti qualche pagina prima (pag. 22) eccolo che, secondo la regola del mutuo soccorso di cui dicevo, accorre in aiuto di un collega: “Cosa posso pensare dell’atteggiamento dello stato nei confronti di Zeffirelli? Nella sua casa di Positano, egli ha aperto nuove finestre con cornici di intonaco leggermente invecchiato, su cui ha fatto inscrivere la data 1771…Ebbene è stato costretto a toglierla. Per questo sono nemico della legalità.” Anche a me era venuto in mente di passare alla clandestinità per via dell’obbrobrio della tassa sugli yachts. Poi però ci ho ripensato. Visto che lo yacht non ce l’ho mi sono reso conto che stavo lavorando di fantasia…ma per quanta fantasia ci metta mi è quasi impossibile riuscire ad immaginare dove un gagà che (anche se vate) non ha mai lavorato in vita sua riesca a trovare le energie per rimestare in questa fangosa sbobba piccolo culturale che ogni filisteuzzo portatore di “libero pensiero” comunica al barista, mentre s’ingozza di sfogliatelle e cappuccini. Nel concitato tentativo di confondere il malcapitato per riuscire ad infilarsi tra le ganasce qualche pasterella fuori dal conto. Un minestrone di melensaggini in cui “i sapori del tempo che fu” se ne vanno a spasso con i “retaggi del passato” là, nella valle degli orti, dove Mastro Lindo s’è sposato con l’olandesina, in quel luogo “magico, patinato di fumo, dove si serviva ancora il vino in ciotole di metallo” (pag.85) e Cervellati suonava le nacchere e ballava il minuetto con Alberto Arbasino. Quel luogo incantato in cui, a Zeffirelli nessuno avrebbe osato impedire di scrivere minchiate sopra le finestre. Ora, questa terribile tortura imposta ad un altro vate-gagà, inutile dirlo, mi addolora. Così, a caldo, anch’io mi darei al banditismo. Però poi mi consolo perché prendo atto che se è pur vero che i cattivi non gli hanno fatto scrivere “1771” sopra una finestra aperta l’altro ieri, è ugualmente vero che nessuno gli ha impedito di girare i suoi film; che sono, ammettiamolo, un pochino peggio di una sciocchezza incisa sull’intonaco. Insomma è sempre la storia del bicchiere: è mezzo pieno o è mezzo vuoto? Chi può dirlo…oramai nessuno più risponde a queste domande, data “la degenerazione nella lingua, nella musica, nella letteratura” (pag.30). Un momento, prego…nessuno tranne il nostro vate che, dietro richiesta del gagà e ligio, questa volta, alla legge Bassanini, presenta autocertificazione di qualità firmandosela da solo e per giunta soffiando dentro il corno inglese in questa maniera: “Il desiderio di verità che mi anima viene da lontano” e “Io ho fatto per l’arte ciò che Carmelo Bene fece per il teatro” (pag.27). Eppure la decadenza della letteratura non ha impedito né al gagà e neppure al vate di scrivere una frase come questa “Oggi non sai più riconoscere che neanche passi un fiume attraverso Tokyo” (pag.41) dove la sintassi si volatilizza in metafisica pura. D’altra parte, sebbene gli studi storici (sempre per via della famosa degenerazione…) siano oramai carne di porco, il nostro vate (in quanto gagà) accorre, si leva il monocolo, colpisce gli ignorantoni con la sua canna da passeggio e risolleva i suddetti studi. Perciò s’inalbera e fa persino dello spirito (nei limiti di gesso entro cui il vate lo consente al gagà) su quelli che “non conoscono la storia” e poi, del detto “L’aria della città rende liberi” (che risale al medioevo e indica la possibilità, per i contadini, di rendersi liberi dagli obblighi servili dopo un periodo di residenza in città) rivela che si tratta di una “scritta…ispirata all’iscrizione nazista”. (pag.32). Se ad uno così gli consegnate un’epigrafe funeraria ve la restituisce infiocchettata in confezione regalo e trasformata nel barzellettiere di Totti. Ma i tempi sono grami e, come il nostro (vate? gagà?) ha inciso a pag.22: “L’ignoranza è sovrana”.
Tra autocertificazioni (“io so di conoscere pietra su pietra le opere di Palladio”) proclami da parata elettorale (“ripartire dalla storia per tutelare il presente e progettare il futuro”) lamentazioni della lapide al milite ignoto (“non ci sono più Palladio e Raffaello”) nostalgie da signorinella pallida (“…l’aula con piccoli banchi di legno e luci fioche e propizie…”) e superomismi alla Johnny Bravo, il bellone col ciuffo (“Nel difendere la bellezza non bisogna mai abbassare la guardia. Mentre ero distratto, a Ferrara…è stato costruito un edificio a torre…”) questo volumetto riesce ad essere spaventosamente prolisso pur nei limiti ristretti delle sue cento pagine. Esattamente come il suo autore riesce, nei ristretti limiti di una comprensione turistica dell’architettura e dell’urbanistica, a far mostra di una presunzione addirittura enciclopedica. Egli sa esprimere la sua indignazione da vate attraverso raffinati jeux de mots come questo: “Il Cristo Morto del Mantegna , cioè l’opera più importante esposta a Brera, se ne sta su un muretto giallo, sovrastata da una specie di decorazione che uno non metterebbe neanche nel “gabinetto” di casa sua” ma sa anche, da gagà itinerante, indignarsi un tanto al metro: “…si è tentato di costruire un ristorante a soli cento metri da Castel del Monte, il più importante monumento Federiciano” e se, non conoscendo il cesso di casa sua, non possiamo porre rimedio alla prima indignazione, potremmo forse rimediare alla seconda recandoci a pranzo con l’elmo ed imponendolo anche, eventualmente, a tutti i cani che, sulle mura di Castel del Monte, ci vanno a pisciare.
La cosa davvero stupefacente, però, è che questo stesso vate dall’ego gonfio come la prostata di Giosuè Carducci, questo gagà a cui il narcisismo impedisce, non fosse che per un milionesimo di secondo, di provare orrore per sé stesso, per ciò che ha rappresentato e rappresenta, per come ha contribuito e contribuisce alla volgarità e alla barbarie mediatica senza limiti in cui oramai sguazza questo “paese sfigurato”, riesca poi a chiedersi senza che gli caschi la dentiera per la vergogna: “Come difendersi dal delirante ego degli architetti?” e a dedicare un capitolo all’esorcismo dell’“L’architetto-narciso”. S’indigna, l’amico, per via della “barbarizzazione modernista” ed è affranto per la volgarità che lo circonda da ogni parte, ma non è neppure sfiorato dal dubbio che questo paese sia stato involgarito, imbarbarito e messo alla gogna (molto prima e molto più che da una fantomatica “modernizzazione”) da un degrado mentale e culturale che personaggi come lui incarnano a perfezione: con i loro isterismi, la loro ridicola presunzione, le loro patetiche apparizioni televisive. Una fiera della fatuità che, con la funebre monodia della sua chiassosa demenza, ha di sicuro arricchito lui e quelli come lui; ma ha fatto di peggio che sfigurare questo paese: lo ha inesorabilmente lobotomizzato.


(Ugo Rosa – 28/9/2004)

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