Introduzione
di Sandro Lazier
In occasione del centenario della nascita di Giuseppe Terragni, antiTHeSi pubblica l’editoriale di Bruno Zevi del n.153, del 1968, di “L’architettura, cronache e storia”, interamente dedicato al 25°anniversario della morte di Terragni. Si trattò infatti della prima, vera occasione per meditare sull’eredità dell’architetto comasco. Due ragioni ci sembrano essenziali.
La prima intende riproporre con forza la dimensione internazionale e l’ispirazione universale degli esperimenti di Terragni, peraltro all’interno di una teoria razionalista che non amava certamente coccolarsi nel particolarismo e nella retorica del bel paese. Dice Zevi nell’editoriale che proponiamo per primo alla lettura: “Sull’empito di quella disperata fiducia nell’orizzonte europeo va misurato il tedio serpeggiante tra noi.” Mai si sarebbe aspettato che Paolo Portoghesi quarant’anni dopo negasse una così squisita evidenza, rovistando in quel che resta di un cadavere italiano, in cerca di una sempre più confusa italianità.
La seconda ragione è un invito a tenere alta la tensione, come ha fatto Antonino Saggio nel suo intervento che riproponiamo, senza cadere nella superficialità della celebrazione, nella volgarità e nel pettegolezzo di cui pare diano prova le nostre stelle quando ammettono amori e passioni terragnani, malgrado la puzza di fascista che per alcuni ancora accompagna il personaggio.
Iniziamo con l’editoriale di Bruno Zevi.
L’idea di curare un’oeuvre complète di Giuseppe Terragni nacque nel 1953 per iniziativa del fratello Attilio. Non era pensabile, in effetti, che la figura emergente del razionalismo italiano, l’unica di rilievo internazionale tra le due guerre, restasse affidata a sporadici saggi, al libretto di Mario Labò pubblicato nel 1947 ed ai capitoli di alcune storie dell’architettura moderna. Perciò ci mettemmo subito al lavoro raccogliendo disegni, fotografie, lettere, testimonianze.
L’impresa tuttavia si arrestò perché realizzarla apparve assai più arduo del previsto. Un rapido scandaglio tra le carte dello studio di Como consentì di rintracciare una sorprendente quantità di documenti inediti. Ma gli eventi bellici avevano distrutto gli archivi di Pietro Lingeri e di Marcello Nizzoli; P.M. Bardi era emigrato in Brasile, i vari partners e collaboratori, dal fedelissimo Luigi Zuccoli a Piero Bottoni, da Figini e Pollini a Frette e Dell’Acqua, possedevano un materiale scarso e incompleto. E poi, nel 1953, rivedere edifici gremiti di simboli fascisti, rileggere testi e articoli inneggianti all’epoca mussoliniana, risultava quasi insopportabile; oggi è invece soltanto fastidioso. Terzo motivo, forse il più valido: in una fase di critica al razionalismo, un volume su Terragni sembrava più doveroso che urgente.
L’idea di curare un’oeuvre complète di Giuseppe Terragni nacque nel 1953 per iniziativa del fratello Attilio. Non era pensabile, in effetti, che la figura emergente del razionalismo italiano, l’unica di rilievo internazionale tra le due guerre, restasse affidata a sporadici saggi, al libretto di Mario Labò pubblicato nel 1947 ed ai capitoli di alcune storie dell’architettura moderna. Perciò ci mettemmo subito al lavoro raccogliendo disegni, fotografie, lettere, testimonianze.
L’impresa tuttavia si arrestò perché realizzarla apparve assai più arduo del previsto. Un rapido scandaglio tra le carte dello studio di Como consentì di rintracciare una sorprendente quantità di documenti inediti. Ma gli eventi bellici avevano distrutto gli archivi di Pietro Lingeri e di Marcello Nizzoli; P.M. Bardi era emigrato in Brasile, i vari partners e collaboratori, dal fedelissimo Luigi Zuccoli a Piero Bottoni, da Figini e Pollini a Frette e Dell’Acqua, possedevano un materiale scarso e incompleto. E poi, nel 1953, rivedere edifici gremiti di simboli fascisti, rileggere testi e articoli inneggianti all’epoca mussoliniana, risultava quasi insopportabile; oggi è invece soltanto fastidioso. Terzo motivo, forse il più valido: in una fase di critica al razionalismo, un volume su Terragni sembrava più doveroso che urgente.
Sono trascorsi così altri quindici anni; e cade proprio in questo mese, il venticinquesimo anniversario della scomparsa misteriosa, improvvisa di Terragni, che suscitò persino il sospetto, rivelatosi assurdo, di un suicidio. Riguardo all’obiettivo di un’esegesi compiuta della sua opera, in un quarto di secolo nulla o quasi si è fatto. Per la cronaca, possiamo citare la mostra commemorativa inaugurata da Le Corbusier nel luglio del 1949, l’ampia rassegna compilata per la rivista inglese “Architectural Design” del marzo 1963, il premio conferito dall’Accademia di San Luca a Lingeri nel 1966, che implicava un riconoscimento, seppure tardivo e indiretto, del contributo di Terragni. Si noti: la XXXIII Biennale di Venezia, come non trascurammo di sottolineare nell’editoriale n.131, ordinò un’esposizione sulgli “Aspetti del primo astrattismo italiano, Milano-Como 1930-40” di cui gli amici di Terragni, Mario Radice e Manlio Rho, furono protagonisti insieme a Lucio Fontana, Osvaldo Licini, Bruno Munari, Anastasio Soldati. Nel campo architettonico, incomparabilmente più incisivo, silenzio; a parte gli studi su Cesare Cattaneo dei nn. 63-68 che hanno rievocato il breve itinerario del solo autentico discepolo di Terragni, morto poche settimane dopo di lui. Tutto qui. Per l’oeuvre complète occorreva dunque un rinnovato impegno, anzi uno scatto determinato dall’incontro tra i veterani della battaglia razionalista, Bardi, Bottoni, Sartoris, Zuccoli, ed alcuni esponenti della generazione successiva, dai nipoti Emilio e Carlo a Mario Di Salvo ed Enrico Mantero, decisi a rivendicarne l’attualità.
Il presente fascicolo anticipa frammenti di scritti, fotografie e disegni della monografia che la Etas-Kompass si propone di pubblicare dopo un ulteriore scavo filologico e critico da esperire in occasione del convegno indetto a Como per il 14-15 settembre. Ma basta scorrerne le pagine per per valutare gli esiti dell’inchiesta: dalla tomba Mambretti alla riconfigurazione di Brera, dal contenitore polifunzionale della Cortesella alla casa rionale per Roma, decine e decine di idee ignorate e profetiche integrano i capolavori celebri accrescendo i parametri e le dimensioni della personalità di Terragni. le memorie ne dilatano la gittata civile e umana. Gino Chierici ricorda l’intrepido intervento in difesa del nucleo medievale assalito dagli speculatori fondiari: “Una notte, squadre di fascisti agli ordini del federale, con il compiaciuto consenso del Prefetto e del Questore, cosparsero di petrolio ed appiccarono fuoco alle armature di legno erette a puntello della casa Vietti per iniziarne il restauro. Contro il teppistico tentativo si levò , magnifica di sdegno, la libera voce di Giuseppe Terragni tra lo stupefatto sgomento stupore di coloro che avevano cercato di soffocarla”. Augusto De Benedetti depone nell’ambito degli affetti privati: “…fu per me particolarmente caro quando anche in Italia si applicarono le leggi razziali. In quel periodo, cercai di allontanarmi dalla compagnia del caffè Rebecchi, centro comasco dei movimenti moderni di architettura e pittura. Non volevo che la mia presenza nuocesse agli amici, e specialmente alla loro arte già definita demoplutogiudaicamassonica. Fu proprio Terragni a dimostrarsi in quel triste periodo un vero e sincero amico, sempre pronto a difendermi, a rincuorarmi e ad infondermi coraggio per superare il terribile momento. Conservo sue cartoline inviatemi dal fronte russo, nelle quali c’è sempre una frase d’incoraggiamento per me”. Episodio marginale, senza dubbio; ma, in quei tempi, scrivere dal fronte russo ad un ebreo era gesto di straordinaria generosità e di sicuro rischio.
Sotto il duplice profilo, creativo e psicologico, le risultanze dell’indagine sono certo impressionanti. Ma è poi questo che vale? Si tratta di un riesame obbiettivo, sereno, scevro di conseguenze polemiche? Tutt’altro. Forse, quindici anni fa, il libro avrebbe potuto assumere carattere distaccato. Oggi, un discorso su Terragni rappresenta un grido d’allarme, un’accusa, un richiamo; comporta un urto provocatorio, uno scontro. Rimeditare sul Razionalismo significa porsi quesiti scottanti e angosciosi: l’architettura italiana ha segnato un progresso rispetto alle posizioni acquisite, in un contesto drammatico e irto di ostacoli, dall’avanguardia degli anni trenta? durante l’ultimo quarto di secolo, la società affluente non ha stemperato gli animi e le energie, dilapidando un retaggio sostanziale ed inducendo ad una catena di evasioni, dalle pseudo-poetiche dei vernacoli “spontanei” al neo-liberty, dagli equivoci dell’ambientismo ai capricci pop e alle fughe in avanti delle utopie? Curiosi, sintomatici, pungolanti, pertanto sistematicamente registrati e commentati in questa rivista, tali fenomeni hanno lasciato un vuoto pauroso sul terreno delle ideologie e dei valori; nel tipico processo del consumo e del recupero, il loro nevrotico avvicendarsi spalanca oramai la strada a pericolosi ritorni neoclassicisti e barocchi, alla ricostituzione di immagini statiche, monumentali, chiuse, volumetricamente inespressive e spazialmente mute, insomma al tradimento dell’architettura moderna.
Ripensare Terragni implica una verifica, un bilancio della produzione italiana dal 1943 in poi, ad ogni livello: giudizio sui contenuti e sui metodi; giudizio sui maestri e sulle opere di eccezione; giudizio sul repertorio linguistico, sulla sua consistenza e il suo potere comunicativo, la sua capacità di penetrare, diffondersi, modificare la realtà; giudizio infine sulla efficacia del dibattito architettonico, sulla ricerca, la didattica, la scuola. La collera dei giovani si spiega anche alla luce di questa suicida dissipazione di valori, dell’appiattimento delle coscienze, della mancanza di qualità, della perduta tensione nel credere e nel trasmettere, dell’indulgenza e nel dubbio che spesso è comodo alibi per declinare le responsabilità.
Qui non si propone una cerimonia automortificatrice e nemmeno una rivalutazione meccanica dell’esperienza razionalista. La crisi dei linguaggi di estrazione cubista era inevitabile di fronte ai nuovi panorami del dopoguerra, al movimento organico, al dirompente messaggio di Frank Lloyd Wright. Il problema non sta in un revival di Terragni, ma in un confronto, in una spregiudicata riflessione autocritica. Per cogliere l’impulso di un rilancio, occorre riportarsi alle lotte di quella minoranza che, intorno a Terragni, Persico e Pagano, seppe opporsi alla retorica, alla corruzione, al commercialismo riscattando in extremis la cultura italiana dal disfacimento totale. Sull’empito di quella disperata fiducia nell’orizzonte europeo va misurato il tedio serpeggiante tra noi.
Tra cicloni di forze distruttive e nichiliste, minata dall’indifferenza, s’apre ancora una scelta. Questo fascicolo può servire semplicemente a titolo consolatorio. Oppure, incitare ad una ripresa delle valenze non utilizzate dell’architettura di Terragni, così densa di ipotesi e feconda di prolungamenti. Ai giovani, agli studenti dovrebbe indicare come il movimento moderno, con la sua enorme carica contestativa, non sia appannaggio e fregio dei padri e dei fratelli maggiori, ma costituisca un’eredità splendida e tremendamente pesante, tutta da reinvestire.
Editoriale estratto dal n°153 di “L’architettura, cronache e storia”, del luglio 1968
(Bruno Zevi – 23/4/2004)