Karl Krauss diceva che il giornalismo è non avere un pensiero ma saperlo esprimere. Se ce ne fosse stato bisogno quest’aforisma sarebbe stato provato al di là di ogni ragionevole dubbio da un bel paginone pubblicato da Il Foglio” del Sabato 01.11.2003“. Un tale (don?) Camillo Langone vi scrive con sicurezza sovrana di architettura religiosa moderna esprimendo giudizi capitali senza minimamente preoccuparsi di quello che dice. Le parole gli cadono dalla penna come cenere dalla sigaretta: lui non fa altro che cacciarle col piedino sotto il vasto tappeto della sua incompetenza. Tutti guardano il tappeto e s’informano del prezzo perciò dell’immondizia che c’è sotto, alla fine, non frega niente a nessuno. Del resto chi mai potrebbe parlare di chiese, papi e crocifissi meglio di un don Camillo? Nessuno. Dunque eccoti don Camillo Langone che con la sicurezza marziale del cappellano di truppa appronta un bel predicozzo sulla nuova chiesa di Richard Meier a Roma.
Questo don Camillo col superlativo infisso nel cognome è un poeta conviviale, uno che lo metti seduto a capotavola gli dai una trombetta elastica e, tra una portata e l’altra, lo sguinzagli: “Langone, un brindisi!”. Lui dà una soffiatina alla trombetta e comincia: “Solo un vino da uva Negroamaro/Sa addolcirmi già al primo bicchiere/Per migliorarmi, mai me ne separo…” il tempo di bagnare le corde e riprende, nostalgico: “ Di venerdì mangiare baccalà/Bevo Cerveteri ma non c’è più storia/Com’era bella la nostra civiltà…”. Uno che produce versi di questa gradazione alcolica (e li pubblica) capite bene, può scrivere di tutto. Inoltre, anche se d’architettura non capisce una fava, basta che apra il breviario e lì ci sono tutte le similitudini veterotestamentarie che il don Camillo medio deve usare, quando parla o scrive d’architettura moderna sui giornali. Allora com’è l’esterno della chiesa di Meier? “Fuori è una tipica superficie Italcementi”. E dentro? Dentro, naturalmente, è “Mistica come un aeroporto e mariana come una stazione della metropolitana”. Poteva anche essere paragonata: a) ad un capannone industriale b) ad una clinica c) ad uno scannatoio d) ad un cesso pubblico e) ad un padiglione pubblicitario f) ad un distributore di benzina. E non dimentichiamoci di g) una caserma dei pompieri e h) una mensa pubblica. Bastava leggere fino in fondo la voce “architettura moderna” del breviario. Perché è dalla notte dei tempi che c’è un don Camillo addetto alla raccolta di luoghi comuni sull’argomento. Con variazioni insignificanti sono già stati collaudati tutti per delle mezze seghe come Le Corbusier, Alvar Aalto, Louis Kahn, Mies van der Rohe, Frank Lloyd Wright riscuotendo sempre grandi applausi tra i parrocchiani. Il reverendo ci delizia poi con raffinatezze che farebbero invidia perfino al suo datore di lavoro: “Avendo letto che avevano speso un sacco di soldi mi aspettavo un campanile orrendo ma almeno svettante…invece non si vede nulla – perché per i don Camilli quel che conta è chi, in parrocchia, ce l’ha più svettante –…è uno sputacchio stortignaccolo, “la parola del Papa che si fa chiesa”…sarà piuttosto la parola di Adel Smith perché la prima cosa che si nota è l’assenza della Croce….il campanile è un mozzicone, dev’essere passato l’imam – papa e croce, in sacrestia, si scrivono con la maiuscola e imam invece no, sono i prodigi ortografici dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso – a imporre che non sia più alto della moschea del Monte Antenne…”. Anche nel settore “propaganda fidei” questo Léon Bloy ribollito al prezzemolo ha da dire la sua: “Questo nuovo edificio cosiddetto sacro…non ha funzionato nemmeno col suo architetto, Meier ebreo era ed ebreo è rimasto…”. Esaurito il versante architettura ed evangelizzazione don Camillo passa ad arrotarci i cabbasisi con interessanti amenità sul suo raffreddore, sul culo della bella che sale le scale davanti a lui, su San Pietro che pullula, sentite un po’, di “musi gialli” (a quanto pare al Foglio sono finalmente arrivati i dispacci da Pearl Harbor) e ad aggiornarci circa il fatto che “questo bestiame non ha pietà” e fotografa tutto.
Infine questo dandy ai tarallucci e vino, tutto pataccato di etichette, senza che nessuno gliel’abbia chiesto ci fa sapere, convintissimo che ce ne fotta qualcosa, dove si serve per le camicie (“vado da Cenci, in Campo Marzio”) e di che marca sono le scarpe che porta (“la suola delle mie Grenson”) e solo per un pelo non ce ne comunica il prezzo.
Non basta. Persuaso di emulare Lord Brummel si raschia via la forfora con l’unghia del mignolino teso e, dopo svariati ammiccamenti sulla “giacca nera di fustagno che il sarto mi consegnerà in settimana”, finalmente ci rivela che s’è trovato a transitare con profitto davanti a qualche chiesa del Vignola, del Della Porta e dei Zaccagni. Sa, dunque, di cosa sta parlando. E siccome fa parte della categoria dei turisti culturali (non certo di quelli col “muso giallo”, il suo musetto è a culo di gallina, come quello di tutti i baciapile) questo gagà della gazzetteria feriale che sente la puzza di tutti fuorché la sua e che se ne va in giro col colletto inamidato del previtocciolo perché s’immagina che l’olezzo di sacrestia “faccia tendenza”, ritiene di potersi permettere di scrivere d’architettura moderna senza saperne nulla.
Ne scrivevano, un tempo, Adolf Loos, Edoardo Persico e, con grandissimo pudore, Carlo Levi …com’era bella la nostra civiltà…eh, caro don Camillo? Adesso tocca ai narcisisti patologici e ai cappellani militari come lei. Del resto perché no, visto che di politica si occupano gli Schifani e i Bondi? Il Biedermeier, come diceva Gombrowicz, ci colpisce sempre dal basso.
(Ugo Rosa – 12/11/2003)
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