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Storia e Critica

Dell’Imprinting nell’architettura siciliana

Ma nei sentieri non si torna indietro
Altre ali fuggiranno dalle paglie della cova
Perché lungo il perire dei tempi
L’alba è nuova, è nuova.

Sono versi del poeta sindacalista Rocco Scotellaro e sono incisi in una architettura a lui dedicata: un telaio spezzato, disegnato da un gruppo di progettisti milanesi, che incornicia la pianura dall’alto della rocca materana. Gianluigi Banfi, partigiano architetto morto in campo di concentramento e il poeta contadino tornano insieme alla mente quando al nostro lavoro in Italia vogliamo pensare particolarmente in questo nostro contesto, qui in Sicilia, qui a Sciacca.
Proiettare le proprie aspirazioni, credo, necessiti di un senso degli avvenimenti. Abbiamo bisogno, anche come architetti, di conoscenze da metabolizzare in capacità di orientamento: da questo “senso” provvisoriamente raccolto molte sono le riflessioni che illuminano la nuova alba. Ma una su tutte: 

I. “Forti nelle differenze”

Ormai alcuni anni fa  ho fatto un viaggio al Sud con il compito di studiare le nuove architetture siciliane. Non conoscevo in realtà né quelle architetture né quella isola anche se vi avevo trascorso otto anni della mia infanzia e anche se mio figlio Raffaele porta il nome del nonno che questa terra ha vissuto intensamente. Le tante volte che vi ero andato ero sempre distaccato e sarcastico: vedevo le brutture architettoniche che pretendevano di essere eleganti e mi attanagliava lo sviluppo vergognoso dei centri costieri. Osservavo ironicamente le costruzioni in progress sui ferri di attesa. Riflettevo sul cemento armato e sulla scissione dell’atomo: anche il C.A. ha dato un’arma distruttiva perché impoverito delle sue potenzialità, ridotto a metro cubo, ha vandalizzato e, come Coca-Cola e Canale 5, omologato verso il basso. Modernità a caro prezzo dunque.
Ero in una trappola pasoliniana, perché in architettura può non essere cosi. Vogliamo progresso e cultura, futuro e rammemorazione e, in particolare, Contesto e Imprinting. Cerchiamo di capirci.
Contesto per noi architetti ha almeno tre significati distinti.
Da una parte usiamo la parola attraverso il concetto di luogo. In questo caso l’attenzione è rivolta alla morfologia specifica del sito dove l’architettura sorgerà e al ruolo, alla configurazione e al significato architettonico e urbano degli edifici preesistenti nell’immediata area circostante.
Il secondo significato è penetrato nella cultura italiana soprattutto grazie al romanzo di Leonardo Sciascia. In questo caso “Il Contesto” descrive il quadro sociale, storico e culturale che influenza una condizione dell’operare in un’area specifica.
Naturalmente i due significati spesso si combinano tanto da spingere a pensare al contesto attraverso l’immagine di una tessitura. Questo terzo significato a cui, sono certo, pochi architetti penserebbero, è invece proprio quello “ufficiale” che la lingua italiana dà alla parola (Cfr. Zingarelli, 1990: “Contesto.. 1. lett. Tessitura, intreccio. )
Ora l’idea di contesto come  tessitura, come fosse una rete mutevole che determina una griglia spazio-temporale che einsteinianamente risulta formata  e deformata dall’architettura, mi sembra un già bel viatico per iniziare.
Ma al concetto “fisico” di contesto come rete e tessitura per procedere veramente va aggiunta una componente più magmatica, più fluida, più ibrida che ha a che vedere con le strutture più profonde della psiche.
Questa quarta declinazione “chimica” è associata per me al concetto di Imprinting: e cioè alla teoria che vede nelle fasi formative della vita la creazione di dei pattern, di delle strutture ricorrenti che poi continuano in tutta l’evoluzione successiva. Il concetto non è solo delle scienze naturali, biologiche, psicologiche, comportamentali ma è stato applicato anche in altri settori. Marx stesso parlava della nostra infanzia greca. E’ una condizione primigenia, una infanzia mitica continuamente riproposta nella vita adulta anche se nelle forme imprevedibili dell’arte.
 

Ora, ha un senso parlare di imprinting riferendosi all’architettura?. Esiste una differenze profonda, una radice diversa al Nord al Centro e al Sud d’Italia?
Cominciando a visitare le poche, ma bellissime, architetture nuove siciliane, mi è parso a un certo punto di catturarne il segreto. La presenza – forse sotterranea, forse solo sentita – appunto di un imprinting lontano.
 

Un fare greco per pieni, per volumi puri che, agganciati al suolo irregolare, elevano masse frastagliate. Un canto al cielo, una luce che taglia ombre nette, ma anche un continuo procedere per sorprese, un salire e scendere, girare attorno e mai in asse. Ho scoperto allora la relazione con il paesaggio di queste architetture e di queste città. Il paesaggio vince sull’architettura, la comanda ma ne ha bisogno come un necessario controcanto. Messina, adagiata sulla stretta piana tra i Peloritani e il mare, Palermo, città “tutta porto” sotto il monte Pellegrino o Catania, osservata in ogni suo angolo dal gigantesco Etna esaltano il paesaggio come la cattedrale federiciana del colore della rocca rossa di Cefalù, il teatro appoggiato sul declivio e che si apre sul golfo oppure i templi che mandandosi l’un l’altro silenziosi messaggi, ci fanno guardare il cielo e il mare.
Ho capito d’un colpo la Villa di Malaparte a Capri, ma anche le nuove opere a Cefalù, a Menfi, a Gibellina nuova, a Catania. Era possibile lavorare attorno a questo fare scultoreo, a frammenti asimmetrici e angolati, a camminamenti interrotti, a masse tutte colorate contro il cielo, a una combinazione mai mimetica con il paesaggio che rammemori l’infanzia greca ma con la cifra di uomini e architetti di oggi. Attraverso l’accettazione quindi di contaminazioni tra la storia personale, quella universale e internazionale dell’architettura e quella della terra.

Camminando in queste opere nuove ho capito il valore, anche in architettura, di essere Contro, di perseguire una ragione diversa dalla norma. Combattere le aberrazioni del territorio, l’uso distratto della tecnologia, i facili compromessi speculativi o le consuetudini clientelari. Un essere Contro vero – quello di Scotellaro o di Livatino – lontano da élitarismi intelletualistici perché necessario; per fare e convincere anche se da posizioni di minoranza.
Riflettevo per contrasto alla differenza tra questo imprinting greco e scultoreo e il Nord. La Padania, soprattutto, mi appariva un contesto geografico e storico che dai tempi del cardo e decumano dell’urbanesimo militare romano non poteva più sfuggire all’idea di città: sino ad oggi l’architettura al Nord sembra essere prefigurazione di un’idea urbana come se la memoria della fondazione ex novo non possa che essere ogni volta riproposta, ripensata anche nei più piccoli manufatti. L’architettura-città tende a dominare la natura, anche nei contesti dove ess a è ricca: la cupola della Salute vince sul Canal Grande, la griglia romana proiettata sul fronte della Casa del fascio domina le vette di Brunate.

Questa impostazione “tutta artificiale”, può anche cadere in tentazioni accademiche e stilistiche (e, in fondo, del tutto ovvio che qui il seme metafisico sia cresciuto e si sia sviluppato sino a determinare la “Tendenza”). Eppure si può coltivare questa aspirazione di artificialità, anche con sensibilità, gusto, vera poesia: con un senso di straniamento onirico come nella Casa di Figini e Pollini alla V Triennale, nel Salone della Vittoria di Persico, nel Tubercolosario di Alessandria di Gardella, nella Villa Bianca di Terragni, nel tesoro di San Lorenzo di Albini. La Casa del fascio di Como è il simbolo di questa aspirazione, ma esistono opere che sotterraneamente vivono la stessa presenza di geometria, ordine, artificialità per combinarsi felicemente con la luce, con l’aria, con le funzioni, con la vita stessa. D’altronde forse è proprio l’Asilo Sant’Elia una delle costruzioni più importanti della nostra architettura. Un quadrato assiale e romano che introiettando lo spazio aperto ne deforma partiti e spazi; un’opera a un tempo funzionalissima, dinamica, nuova eppure con velature ed echi antichi.

Per chi, come me, opera soprattutto nel territorio di Roma, credo che qualsiasi sfida di architettura debba nascere da una consapevolezza della sua ancora diversa specificità: da una lettura profonda, da una reale simpatia con la sua lezione. Come non pensare a Ludovico Quaroni e al suo indimenticabile e appassionato ritratto-progetto?. L’imprinting a Roma non è né scultoreo e greco, né militare e “romano”. Caso mai è etrusco: quello delle necropoli scavate nella roccia, dell’organico combinarsi tra natura e architettura. Ma Roma è anche città storica per eccellenza (come Parigi è città di cultura, Los Angeles di velocità, New York di cosmpolitismo). A Roma storia vuol dire stratificazione, accumulo, riuso sulle tracce della civilizzazione precedente, palinsesto, compresenza di natura e architettura di oggi e di ieri. Quest’idea a volte è stato tradita nei secoli, ma altre volte è stata capita ripresa, coltivata. Piranesi è il simbolo di tale consapevolezza, ma anche alcuni progetti di oggi, sino a quella grande idea di Piccinato del Parco archeologico dell’Appia: un misto di ruderi, natura, paesaggio, architettura che fa penetrare la linfa del territorio fino al cuore stesso della città.
“Forti nelle differenze”, diventa allora una direzione da perseguire, una cornice in cui muoversi, una formula da ricordare. È, allo stesso tempo, un modo per cercare, leggere, rilanciare le nostre diverse culture, una maniera per filtrare, con un misto di apertura e di freddezza, le vicende che dagli altri paesi ci arrivano, una consapevolezza della necessità di essere spesso in minoranza, di essere Contro.
 

II. Lenti sull’architettura siciliana

Passiamo in rapida rassegna alcune opere che, pur in maniera diversificata, sembrano meglio aderire a questo quadro e spingiamo il lettore a completare le informazioni con i nomi dei progettisti attraverso una visita in sito, o se la curiosità è troppa riandando al reportage su “Costruire”, n.130, fascicolo aggiunto “Speciale Sicilia o su “Arch’It” .

Cominciamo dal lavoro che da Cefalù  si è esteso a una scuola di architetti più giovani e che costituisce oggi un vero Modus operandi. A Cefalù esistono progetti di architettura contemporanea  che sentono la suggestione delle architetture di percorso delle acropoli o dei ruderi megalitici, greci e romani dei tanti siti archeologici in un continuo riannodare, aprire e chiudere, percorrere con sorpresa, ma anche con occhio vigile al circostante. Vi si afferma una interpretazione mediterranea delle architetture del razionalismo italiano e delle forme libere di Le Corbusier.
La strategia di riammagliamento che contraddistingue tanti interventi   oltre che nei caposcuola si ritrova  anche nella ricerca di altri. Basti guardare  al centro sociale di Montedoro dove le nuove attrezzature (teatro, piscina, uffici, biblioteca) crescono uno sull’altra con una discontinuità planimetrica capace di adattarsi all’orografia e alle giaciture esistenti. Oppure il cimitero di Ciminna o al piccolo giardino in un ex casello ferroviario a Sommatino (Ecopolis Associati).
La formula che guida queste opere – “l’universale dell’architettura e la specificità siciliana”- come tutte, è piena di margini di ambiguità, ma si è andata via via irrobustendo. Gli architetti accettano l’idea della contaminazione, la necessità di non arroccarsi in regionalismi o in retrive autonomie, ma al contempo sono attenti a sviluppare una loro specificità: una monomatericità colorata, una interpretazione mistica di costruzione come scultura abitata, il riannodarsi all’esistente senza rigidezze geometriche e planimetriche, la libertà degli edifici nel contatto con il cielo e il loro profondo radicarsi nel suolo irregolare. Sembra affermarsi quella semplicità violentemente moderna (anti-classica e anti-accademica) con cui Giuseppe Pagano rileggeva l’Acropoli di Atene.
A Menfi vi è una interessante  ridefinizione della piazza più importante del centro  molto danneggiato dal terremoto. Vi si opera in quattro edifici che insistono sull’invaso. Su quello meridionale, si avvolge con un portico di accesso i ruderi della torre dei tempi di Federico II e si erige un blocco che crea un significativo landmark. A fianco alla torre ­ che ospita sale espositive ­ vi è il restauro di un palazzo patrizio mentre, sul margine settentrionale della piazza, si costruisce la chiesa. Sullo stesso margine vi è il nuovo palazzo comunale che si estende anche lungo una via di accesso alla piazza. I volumi semplici e secchi, l’uso non nostalgico della pietra locale insieme ai profilati in alluminio degli infissi, l’orgogliosa resistenza di alcuni segni tipici del proprio stile fanno di questo esempio un successo.
A Gibellina nuova, nel trapanese, vi è, tra l’altro, il progetto le Cinque Piazze. Un progetto la cui tensione è decisamente urbana perché riunifica una serie di isolati frammentati e poveri di senso con nuova forma, qualità e ritmo, crea uno spazio credibile per la comunità – usato per proiezioni all’aperto e per il mercato – oltre che come strada di attraversamento, riesce a sviluppare senza cadute di gusto un tema ludico nella piazza terminale, coglie, infine, che attraverso il ricorso prevalente alla pavimentazione si conserva la qualità dello spazio senza costose manutenzioni.
Certo, risolvere lo stare – e non solo l’attraversare – sarebbe anche stato socialmente auspicabile, ma questa opera è l’unica a Gibellina, e una delle poche in Italia , che riesce a fondare ex novo ­ senza poter sfruttare le tracce e la ricchezza del già esistente ­ le componenti pubbliche, rappresentative ed evocative della città. Nella risolutezza di questa architettura-acquedotto si sente tutto il peso dell’urbanizzazione romana: anche forte, anche imponente, ma assolutamente autentica. E non è un caso che l’autore abbia parlato e scritto a lungo di Paesaggio originario che è un progenitore autorevole del concetto di imprinting.
Sempre a Gibellina, vi è la ricostruzione delle case Di Stefano in cui la nuova funzione culturale viene ospitata valorizzando  il sistema di recinti del modello insediativo del baglio (concepito nel medioevo per resistere agli attacchi esterni, ma successivamente usato come centro di organizzazione del latifondo). È un’opera di re-invenzione (suffragata da studi tipologici sulla casa rurale siciliana) sulla base di pochi elementi pre-esistenti. L’esito è un microcosmo caratterizzato sia dallo spontaneo sovrapporsi delle costruzioni dei centri minori che dal sistema delle corti regolari del potere latifondista.
Infine, sempre a Gibellina nuova, vi è il palazzo Di Lorenzo, una delle decisive architetture italiane.
Sulla scorta di un frammento di facciata del vecchio paese rimasto in piedi dopo il terremoto e trasportato nel nuovo sito, l’architetto rimette in circolo molteplici motivi. Le citazioni al Danteum di Terragni si ritrovano negli stretti camminamenti di entrata, nelle entrate tangenziali di un segreto custodito che riscopre i due ordini della vecchia facciata incassati nella parete che ospita al primo piano la sala espositiva, e poi nel percorso a spirale che dalla corte conduce al piano superiore, nel camminamento che incornicia e dà profondità al paesaggio per condurre di nuovo trasversalmente alla vista della corte nella sala del “riposo” per terminare alla vista del paese mediata dai terrazzamenti coltivati.
In questa opera si rivela anche la lezione di Carlo Scarpa cha nel rifacimento del palazzo Abatellis a Palermo aveva dato una prova anche nell’isola. Le sculture disseminate, ma spesso avulse, sparse per Gibellina qui hanno la capacità di interagire con l’architettura e il paesaggio: il serpente di  Montano che si snoda tra una feritoia della sala del riposo e il cavallo caduto di  Paladino contro il muro esterno alla quota superiore. Un simbolo che sembra voler rimanere sdraiato tra i ruderi del passato. Fa pensare se, nell’animo di questa terra, la bellezza tragica della caduta e della sconfitta sia una condizione che si voglia davvero superare.
A Catania infine vi è l’opera di retauro e risemantizzazione  del magnifico convento dei Benedettini, una serie di realizzazioni memori della lezione neo-brutalista di Samonà e poi il grande centro congressuale e fieristico sul lungomare di Catania, attento anche a nuovi temi temi. Si tratta di una grande area dismessa a ridosso della ferrovia e prospiciente il mare occupata nel passato dalle industrie di trasformazione dello zolfo.
Qui l’architetto mette insieme, committente la provincia, un complesso interessante innanzitutto per il complesso di funzioni che si innestano (museo, zone fieristiche, teatro, cinema, aree espositive e per il tempo libero, ambienti per associazioni ricreative). L’architettura è da una parte violentemente contemporanea (tutta la struttura è in ferro con pezzi di notevoli audacia) e allo stesso tempo ingloba alcuni inserti antichi (vecchie mura, ciminiere, capannoni). Il progetto crea una successione di spazi frastagliati, dinamici, attenti alle funzioni all’aperto con viste mutevoli da cui si incuneano il Vulcano e il mare. L’insieme degli spazi e dei corpi si àncora su una grande aula di conferenza trattata come un enorme masso arenato sulla costa. Insomma, un’opera di livello europeo, sul tema dei temi della città contemporanea – quello appunto delle ex aree industriali -, di cui ancora poco si sa e che qui viene “meridianamente” declinato.


III. Il nostro in-between

Fare questo rapido giro per le architetture siciliane (e sicuramente troppe sono le assenze e le scoperte ancora da fare) non deve nascondere la consapevolezza di aver visto e parlato solo di un’avanguardia. Basta infatti un rapido sguardo alle crescita di città e cittadine per vedere il vero meccanismo in opera: l’accettazione acritica della modernità come strumento per razionalizzare industrialmente un abuso che trasforma le consuetudine interpersonali e solidaristiche di una cultura contadina in strumenti clientelari e di corruzione. Il territorio è Cosa Nostra, non nel senso di un bene comune da valorizzare, ma come appropriazione indebita e malavitosa che dalle speculazioni in grande scala agli abusi dei piccoli attraversa per intero l’isola. Molto c’è da dire, e sarà detto.
Ma torniamo al titolo di questo intervento e quindi ad alcune strade della ricerca architettonica contemporanea in Sicilia. Aver posto all’attenzione sin dal titolo  il concetto di Imprinting  vuol dire innanzitutto rifiutare seccamente ogni facile operazione di “Memoria”. Le riprese stilistiche di forme, apparati decorativi, stilemi non è operazione adulta. Pensare alla vitalità dell’infanzia, al suo profondo influsso sul nostro divenire non è nostalgia, ma ricerca di vera, complessa, accumulata maturità. Gli architetti che operano in Italia, e ancor più quelli che operano in Sicilia che per certi versi è un’Italia estrema (più bella e più assurda, più ricca e più povera, più crudele e più poetica), non possono sfuggirvi. La ricerca architettonica per me, soprattutto qui, non può muoversi che tra la permanenza di profondissimi ragioni e aperture alle crisi che l’oggi ci pone. È una strettoia drammatica e impervia. E’ il nostro in-between.


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(Antonino Saggio – 22/4/2002)

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