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Storia e Critica

Ogni acqua leva la sete.

In risposta a Luigi Prestinenza Puglisi
Caro Luigi, so per certo che le nomination fatte per il Premio Borromini non sono state dettate da questioni di gusto e che gli stessi progettisti prescelti non abbiano intenzioni modaiole.
In caso contrario, ci sarebbe da piangere. Indubbio che dalla selezione emerga una certa costante d’indirizzo alla semplificazione formale, ma ciò non significa che tale atteggiamento sia diretta conseguenza dell’ondata d’architetture improntate alla complessità (formale?).
Vero è che quelle di Hadid, Eisenman e Gehry si possono definire – pur se importanti- linee di ricerca parziali. Meno male. La ricerca architettonica non può essere univocamente indirizzata, né può forzatamente diventarlo. Ciò facendo, si reitererebbe la strada accademica.
Credo che si stia creando una guerra intestina nell’architettura digitale, ciò per una serie di posizioni che finiscono per evidenziare la differenza tra l’architettura che si basa su “concetti quali l’immaterialità, la trasparenza, le interrelazioni”, contro quelle che hanno in se “il gesto, gli spazi avvolgenti e le forme bloboidali”.
Ma non sarebbe più giusto fermarsi un momento e riflettere sui contenuti spaziali dell’architettura digitale?
Dobbiamo necessariamente separarla in settori o, piuttosto, evidenziare come essa possa rispecchiare la libertà espressiva spaziale? Fuksas rinchiude la complessità all’interno di una scatola minimalista: che significhi qualcosa?
Tu precisi che al posto della parola minimalismo avresti dovuto scegliere la parola riduzionismo. Che voglia forse, Fuksas, ridurre la complessità? Commentando il progetto di Gehry per Dusseldorf, Fuksas
-sottolineando anche quanto Gehry usasse il computer e le tecnologie- poneva il quesito “questo è sufficiente per fare nascere un’architettura di qualità, che dia emozione e piacere, quasi fisico, alla vista?” .
Parlava anche di “stanca ripetizione della scrittura di Gehry, un po’ manierista e mancante della sorpresa”.
Forse, la sua nuvola dentro la scatola vuole sottolineare ironicamente che siamo consapevoli di questa “stanca ripetizione…”?
Fuksas rappresenta il mondo dell’architettura digitale, ma altrettanto vale per Gehry, che io credo sia lontano dal pensare che “l’architettura debba a tutti i costi rappresentare la complessità piuttosto che risolvere in maniera semplice i casi complessi”.
Piuttosto, credo sia solo ed esclusivamente un modo diverso di costruire materialmente quel piacere, quasi fisico, alla vista, di cui parlava Fuksas. Con la differenza sostanziale che in Gehry si va oltre il piacere della sola vista.
Lewis Mumford, considerando quanto la società del xx secolo fosse avanzata, evidenziava il pericolo che l’uomo potesse smarrire la capacità di sognare. E inseriva anche l’architettura in questa crisi di libertà, quella che i sogni rappresentano : “l’involucro è tanto più bello quanto più è vuoto”.
Commentando Mumford, B.Zevi sottolineava quanto fosse importante il “problema delle forme[…]Per un architetto l’interpretazione personalizzata dei contenuti umani e delle funzioni edilizie costituisce una fase essenziale del lavoro creativo che, istantaneamente, si concreta in ipotesi formale, in un’immagine”.
Sono ottimista; la ricerca architettonica contemporanea non avrà alcuna remora nel perseguire strade “formalmente” diverse, ove complessità e minimalismo avranno pari dignità se il loro contenuto sarà quello spaziale.
Scrivendo su Greg Lynn, Marco Brizzi – vedi Arch’it – IN A BIT – è stato perentorio :” …l’architettura contemporanea è chiamata a riflettere su se stessa, a guardare al proprio interno per scoprire la presenza di elementi di trasformazione capaci di ricombinare le dinamiche progettuali e costruttive”. Tu temi che attraverso Lynn “si profili una linea di ricerca post Portoghesiana.Un organicismo a buon mercato”.
Io credo che l’era Portoghesi sia finita sotto le ceneri dei suoi castelli di carta e che non ci siano i presupposti per un post o per un organicismo a buon mercato. L’organicismo è una cosa seria tant’è che neanche una vecchia volpe come Portoghesi è riuscito ad ingannarci.
L’architettura contemporanea è chiamata a riflettere su Lynn, su Gehry, su Fuksas, su Eisenman, su Ito e su chiunque abbia qualcosa da dire affinchè non si ricada nella monotematicità concettuale.
E’ questa la forza della contemporaneità; lo dimostra proprio quel Peter Eisenman che tu indichi quale rifugiato nel disegno. Non mi pare e, soprattutto, credo che Eisenman sia stato – e sia tuttora- un fenomenale propellente nell’ambito della contemporaneità, grazie al suo continuo ricercare ed attualizzarsi.
Ciò potrebbe dare forse ragione a Fuksas quando dice che Gehry si ripete, stancamente, nella sua scrittura?
Eisenman è più incisivo e non si riduce a parlare in termini di forme ripetitive: “Pensando agli edifici di Gehry, si capisce subito che il suo lavoro è il frutto di un pensiero dialettico: cerca di scavalcare la ragione , ricorrendo al sentimento. Al contrario, quando pensi in termini di singolarità, non stai più affrontando un problema di espressione o espressionismo individuale, quanto una questione di ripetizioni differenti.
L’opera di Gehry mi appare semplicemente come ripetizione dell’identico “.
Nonostante la sicura stima professionale, Eisenman guarda con distacco alle opere di Gehry : ” …Gehry occupa un settore molto interessante, ma solo la storia deciderà se i suoi lavori sono critici. Non voglio che i miei edifici siano ricordati come un Mont Saint Michel del futuro […] Non voglio costruire monumenti ai sentimenti […] devi essere critico per trasgredire” – da un’intervista a Flash Art.
Ogni architetto ha i propri fini e per raggiungerli usa i mezzi più consoni al personale modo di “sentire” lo spazio.
L’importante è che lo senta davvero.
Hai toccato i pericoli del minimalismo; quelli della complessità li conosciamo bene: la moltitudine crede che basti scopiazzare forme complesse per essere contemporanei. Molti architetti cavalcano questa via e si rischia di comprometterne i significati che ha avuto nella liberazione dalle castrazioni accademiche.
E’ una moltitudine che non ha le basi per comprendere quanto importante possa essere il manierismo per “affrancare le poetiche dei maggiori da quanto di mistico o eccessivamente dottrinario contengono”, come sottolineava Zevi. Non credo si debba aggiungere altro.
Auguriamoci solo che tutti i giovani architetti che stanno tornando – come tu precisi parlando del minimalismo- a quell’ “…atteggiamento che mira ad ottenere il maggior numero di fini con il minor spreco di mezzi” sappiano darci anche qualcosa che vada oltre, e che diano linfa vitale al linguaggio moderno, quello della rivoluzone informatica.
Caro Luigi, io bevo dove mi capita, perché dopo anni di sete architettonica oggi posso dissetarmi a più fonti, da qualsiasi luogo sotterraneo arrivino.
L’acqua putrefatta dell’accademismo, delle falsità “post” o “neo”, le eviterò. Almeno spero.
Con stima

Liscia, gassata, ferrarelle
di Luigi Prestinenza Puglisi

Caro Paolo: mi hai convinto. La parola minimalismo è ambigua. Peggio. Può essere la formula dietro cui si nascondono coloro che sperano nel ritorno all¹ordine. I quali più o meno ragionano così: la ricreazione decostruttivista è finita, ritorniamo alla tradizione, ai padri fondatori: semplifichiamo, riduciamo e soprattutto smussiamo gli angoli troppo taglienti. E’la stessa operazione che Zevi aveva con molto acume individuato come un motivo ricorrente della storia dell’architettura: albertizzare Brunelleschi, classicizzare Michelangelo, manierizzare Borromini. Adesso sta succedendo anche a lui. Anch’egli messo tra i padri fondatori della architettura dopo essere stato banalizzato e reso inoffensivo.
Se parlare di minimalismo vuol dire tutto questo, per carità, meglio parlare d¹altro. I critici non possono vivere nella notte in cui tutte le vacche sono nere. Né è loro lecito fornire alibi a chi rifiuta la modernità, che è sempre una riflessione alta e sofferta sulle contraddizioni del proprio tempo.
Ritorniamo al termine minimalismo.
Mi rendo conto di averlo adoperato secondo tre accezioni diverse.
Prima accezione: per descrivere un fenomeno di moda. Una tendenza oggi indubbiamente in fase espansiva. Basta guardare le riviste di arredamento, gli allestimenti dei negozi, il lavoro di molti giovani, i lavori presentati al premio Borromini. Se dovessimo limitarci a una descrizione sociologica non potremmo che prenderne atto. Questo minimalismo è tuttavia sui generis.
Con derive sensuali e estetizzanti ma anche potenzialità positive. Per esempio nella ricerca del massimo degli effetti con il minimo dispiego di mezzi.
Seconda accezione: per descrivere una esigenza di riduzione. Dopo un periodo di esplosione formale, ci si è forse resi conto che occorreva un maggior controllo dei mezzi espressivi. Esiste una grande differenza tra chi disarticola le forme e chi semplicemente gioca sul rumore. Più la complessità è messa in atto, più il controllo deve essere ferreo: come dimostrano bene Libeskind, Gehry, Hadid. Mi sembra che rispetto agli anni novanta in cui si vedevano ferri esplosi, piani inutilmente sghembi, edifici terremotati con un gusto quasi ossessivo per il caos, oggi invece si operi con più stringatezza e laconicità.
Terza accezione: per descrivere le potenzialità dell’invisibile. Mi sembra che siano sempre di più gli architetti che si rendono conto che la spazialità di un edificio non risieda solo nelle sue forme materiali (geometria, colori) ma in qualità immateriali. Il modo in cui le funzioni vivificano gli involucri, le relazioni stimolate, i rapporti suggeriti, la grana, i rumori, gli odori, il comfort, la luce. E soprattutto flussi di informazione: tradotti in immagini o in interrelazioni tra utente, natura, oggetti e ambienti. Se così è, diminuisce il peso della geometria e acquistano rilevanza altre cose. E spazi geometricamente molto semplici possono diventare anche estremamente complessi. Senza ridurre i termini del problema come faceva Mies che negava, in nome della libertà dello spazio, alla povera Edith Farnsworth l’armadio nella zona letto- ma anzi esaltandoli. Torniamo alle tue osservazioni riassunte nella formula: ogni acqua leva la sete.
E¹ vero. Lasciamo libertà alla ricerca e godiamo di questo momento di felicità.
Mi sembra però che, rispetto all’esplosione creativa di qualche anno fa, si registrino battute di arresto. Si percepisca stanchezza. Alcune strade sembrano non portare a niente. E si registra un eccessivo formalismo, soprattutto tra i ragazzi. E allora, se ci sono molti tipi di acqua è bene chiarire quali qualità abbiano: liscia, gassata o Ferrarelle. Ecco tutto.
Naturalmente se la parola minimalismo suggerisce l’acqua liscia, avrai capito che io amo quella gassata.

(Paolo G.L. Ferrara – 15/5/2001)

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