Caro Paolo: mi hai convinto. La parola minimalismo è ambigua. Peggio. Può essere la formula dietro cui si nascondono coloro che sperano nel ritorno all¹ordine. I quali più o meno ragionano così: la ricreazione decostruttivista è finita, ritorniamo alla tradizione, ai padri fondatori: semplifichiamo, riduciamo e soprattutto smussiamo gli angoli troppo taglienti. E’la stessa operazione che Zevi aveva con molto acume individuato come un motivo ricorrente della storia dell’architettura: albertizzare Brunelleschi, classicizzare Michelangelo, manierizzare Borromini. Adesso sta succedendo anche a lui. Anch’egli messo tra i padri fondatori della architettura dopo essere stato banalizzato e reso inoffensivo.
Se parlare di minimalismo vuol dire tutto questo, per carità, meglio parlare d¹altro. I critici non possono vivere nella notte in cui tutte le vacche sono nere. Né è loro lecito fornire alibi a chi rifiuta la modernità, che è sempre una riflessione alta e sofferta sulle contraddizioni del proprio tempo.
Ritorniamo al termine minimalismo.
Mi rendo conto di averlo adoperato secondo tre accezioni diverse.
Prima accezione: per descrivere un fenomeno di moda. Una tendenza oggi indubbiamente in fase espansiva. Basta guardare le riviste di arredamento, gli allestimenti dei negozi, il lavoro di molti giovani, i lavori presentati al premio Borromini. Se dovessimo limitarci a una descrizione sociologica non potremmo che prenderne atto. Questo minimalismo è tuttavia sui generis.
Con derive sensuali e estetizzanti ma anche potenzialità positive. Per esempio nella ricerca del massimo degli effetti con il minimo dispiego di mezzi.
Seconda accezione: per descrivere una esigenza di riduzione. Dopo un periodo di esplosione formale, ci si è forse resi conto che occorreva un maggior controllo dei mezzi espressivi. Esiste una grande differenza tra chi disarticola le forme e chi semplicemente gioca sul rumore. Più la complessità è messa in atto, più il controllo deve essere ferreo: come dimostrano bene Libeskind, Gehry, Hadid. Mi sembra che rispetto agli anni novanta in cui si vedevano ferri esplosi, piani inutilmente sghembi, edifici terremotati con un gusto quasi ossessivo per il caos, oggi invece si operi con più stringatezza e laconicità.
Terza accezione: per descrivere le potenzialità dell’invisibile. Mi sembra che siano sempre di più gli architetti che si rendono conto che la spazialità di un edificio non risieda solo nelle sue forme materiali (geometria, colori) ma in qualità immateriali. Il modo in cui le funzioni vivificano gli involucri, le relazioni stimolate, i rapporti suggeriti, la grana, i rumori, gli odori, il comfort, la luce. E soprattutto flussi di informazione: tradotti in immagini o in interrelazioni tra utente, natura, oggetti e ambienti. Se così è, diminuisce il peso della geometria e acquistano rilevanza altre cose. E spazi geometricamente molto semplici possono diventare anche estremamente complessi. Senza ridurre i termini del problema come faceva Mies che negava, in nome della libertà dello spazio, alla povera Edith Farnsworth l’armadio nella zona letto- ma anzi esaltandoli. Torniamo alle tue osservazioni riassunte nella formula: ogni acqua leva la sete.
E¹ vero. Lasciamo libertà alla ricerca e godiamo di questo momento di felicità.
Mi sembra però che, rispetto all’esplosione creativa di qualche anno fa, si registrino battute di arresto. Si percepisca stanchezza. Alcune strade sembrano non portare a niente. E si registra un eccessivo formalismo, soprattutto tra i ragazzi. E allora, se ci sono molti tipi di acqua è bene chiarire quali qualità abbiano: liscia, gassata o Ferrarelle. Ecco tutto.
Naturalmente se la parola minimalismo suggerisce l’acqua liscia, avrai capito che io amo quella gassata.
(Luigi Prestinenza Puglisi – 14/5/2001)
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