Luca Beltrami se la ride, sicuramente. Ovunque egli sia, se la ride.
Il suo falso architettonico, invece di essere considerato, in nome della decenza storica, per quel che è, diviene tema di dibattito che coinvolge intellettuali di ogni genere. Milano, grigia e noiosa, s’infervora alle falde del Castello Sforzesco.
Milano, presunta capitale morale d’Italia, centro di cultura, di produzione, d’innovazione (e chi più ne ha, più ne metta) si concentra animosamente sulle luci che illuminano uno dei suoi pochi simboli architettonici.
Del Castello Sforzesco, e della sua illuminazione, m’interessa molto poco: dopo il riposizionamento, proprio davanti il suo ingresso, della stupidissima e bruttissima fontana, cosa poteva stupirci ancora?
Eppure se ne parla da mesi. Indubbio: l’illuminazione del Castello è quanto di peggio si potesse fare, ma ciò basta a rendere realmente serio il problema?
Dubito; il problema va oltre lo specifico dell’illuminazione del Castello, che altro non ha fatto se non mettere in piazza la vera questione: a Milano non si può parlare di architettura perché non se ne trova di degnamente considerabile. Milano, architettonicamente parlando, mostra una situazione pessima, retrograda, infarcita di vomitevoli amarcord.
Milano e le sue architetture degli ultimi anni. La Fiera di Mario Bellini, la Bicocca di Vittorio Gregotti, la piazza Cadorna di Gae Aulenti, i grattacieli di Porta Garibaldi dell’Arch.Laura Lazzari, il condominio di Luca Scacchetti in Viale Majno, l’albergo Duca di Milano di Aldo Rossi, piazza della Scala di Paolo Portoghesi, la Casa dello Studente di Bruletti e Signorelli .
Milano è di suo già molto triste e tutte queste opere hanno contribuito a rafforzare tale personalità. Tradizione classicista (Gregotti), retorica (Bellini), a-spazialità (Signorelli e Bruletti), simmetrie (Rossi), ripetizione modulare, pasticci dei pasticci post moderni ( Lazzari e Scacchetti), enfasi (Bellini), vitelloneria decostruttivista (Bruletti e Signorelli). Questa è Milano a tutt’oggi, 15 marzo 2001 . Duemilauno?!!…
L’assessore Lupi attacca Gregotti, Gregotti si schiera con Umberto Eco, Eco scrive la sua opinione su Golem.
Sarà, ma sembra veramente una disputa tra comari sul bucato steso che gocciola sul balcone.
Il fascino delle città – oramai tutte invase da empori e McDonald- dipende ancora dalla loro differenza in termini di emergenze architettoniche?
Si, Eco ha ragione, ma con un limite: che tale differenza sia riferita esclusivamente all’architettura del passato. Siamo alle solite: la modernità non ci appartiene. Putrefatti e mummificati, gli italiani devono crogiolarsi nel loro passato, estasiati dalla grandeur nazionale.
Londra? Parigi? Berlino? Ci si va anche per vedere l’architettura contemporanea, quella che negli ultimi venti anni le sta trasformando in luoghi in cui, oltre a respirare la storia passata, la storia viene innovata.
Il “rigor mortis” italiano – come lo ha definito Libeskind- continua ad essere alimentato, anche da voci assolutamente autorevoli.
Sembra di essere tornati indietro di trentanove anni, Natale 1962: anche allora Milano e i milanesi furono coinvolti in una polemica senza fine per l’ iniziativa d’illuminare la città con installazioni dislocate nei punti nevralgici. Erano gli anni in cui Milano era attiva nel dibattito sull’architettura, anni in cui si viveva la crisi della modernità con la voglia di capirne i risvolti per il futuro, dando contributi diversi ma tutti degni di considerazione. Milano “parlava” con B.Munari, E.N.Rogers, V.Vigano, M.Zanuso, I.Gardella.
A quel dibattito partecipò anche Umberto Eco, con argomenti convincenti. Era tale il fermento culturale sull’architettura che anche le installazioni temporanee di illuminazione divenivano argomento di discussione, soprattutto in termini di modernità del linguaggio in rapporto con la città storica.
Oggi non ci sono più quei presupposti – purtroppo- e le luci del Castello sono solo argomentazione polemica.
La AEM se ne delizia e, continuando nel solco tracciato, ha presentato lo scorso anno quelli che saranno i nuovi lampioni sparsi per tutta la città. Li ha progettati l’Arch. Maurizio De Caro, dando prova di quanto retorici ed enfatici si possa essere in nome del riferimento “storico”. Di forma richiamante un obelisco sezionato orizzontalmente in blocchi, i lampioni si concludono con una bella pallina – o qualcosa del genere- di vetro opalino. Bene, staremo a vedere quanti milanesi si accorgeranno dei lampioni di De Caro e quanti cagnolini si sentiranno più “in” potendo avere a disposizione un bagno d’elite.
A Milano il problema è chiarissimo: manca qualsiasi presupposto per renderla città diversa ma – allo stesso tempo- contemporanea a Parigi, Berlino, Londra, etc. dove la modernità si fa strada, anch’essa tra polemiche, ma in cui scorre sangue caldo.
Se le luci del Castello siano o meno appropriate, a me non interessa. Piuttosto, se proprio fanno così ribrezzo, consiglio di comprare una fionda e…
Eco incita ad “insegnare a cittadini e turisti a guardare i ricordi del passato per quello che sono e per quella che è stata la loro storia, comunque essi siano stati restaurati”. Ci può stare, ma ai turisti e ai cittadini bisognerebbe consigliare anche di guardare i ricordi del presente, gli scempi architettonici compiuti proprio nel centro “storico” di Milano. Nell’area di Largo Augusto ( dietro il Duomo; chi s’interessa di architettura li individuerà immediatamente) ci sono due esempi d’ ignoranza architettonica assoluta, marcata dall’arroganza dei progettisti di richiamarsi all’antico per mezzo di riferimenti tipologici e uso di materiali tronfi, con l’aggravante di volere connotare di modernità le loro opere.
Non conosco i progettisti e i costruttori ma, sicuramente, devono avere avuto ottime amicizie altolocate per l’ottenimento delle licenze edilizie. Chi si è scandalizzato? Chi ha parlato di rispetto delle emergenze storiche?
Vero, drammatizzando si rischia di cadere nel ridicolo, ma ciò vale per tutti, anche per i polemisti del Castello.
(Paolo G.L. Ferrara – 15/3/2001)
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