E’ destino di pochi mortali finire su enciclopedie e dizionari. I motivi possono essere i più disparati, anche quelli meno nobili.
Quando si scrive un dizionario sugli architetti, il risultato non è sempre frutto di analisi obiettive. Nella maggior parte dei casi, sono gli autori a dettare la linea di pensiero che il dizionario dovrà avere, mirando a precisi scopi, secondo gli autori stessi quelli corrispondenti al loro credo.
Prendendo atto di ciò come è giusto che sia nel rispetto del pensiero altrui. Si pongono però delle questioni a cui, chi s’interessa di architettura, non può sottrarsi.
Ha realmente senso redigere classifiche meritorie? E che scopo si nasconde dietro il volere fissare paletti per evidenziare quelli che sono stati, secondo il parere degli autori, i maggiori architetti del XX secolo?
Lo scorso anno, precedendo tutti, Paolo Portoghesi pubblicò il volume ” I grandi architetti del novecento” vero e proprio attacco personale a Zevi. Da pochi giorni è in libreria il Dizionario Skira, curato da Vittorio Magnago Lampugnani e presentato, al Palazzo della Triennale di Milano, insieme a Vittorio Gregotti e Giorgio Grassi.
Da questi due esempi, la cui peculiarità principale è rintracciabile nella comunanza d’idee degli autori, sembrerebbe che i razionalisti accademici sentano forte la voglia di far sapere che esistono ancora.
Lo fanno ergendosi a censori di architetti e architetture, distinguendo ciò che è bene da ciò che non lo è.
Un sottile lavoro di cesello, con l’obiettivo di ribadire che le poetiche dell’ultimo decennio del secolo scorso – che tante strade hanno aperto alla ricerca del secolo corrente- sono state episodiche, e come tali vanno trattate. Questo il succo, sia di Portoghesi sia di Magnago Lampugnani.
Vediamone la nota positiva. Cercare a tutti i costi di ribadire l’attualità dell’accademismo razionalista o dei fronzoli neo-classicheggianti (comunemente definiti Post-moderni), denota l’assoluta consapevolezza che gli ultimi dieci anni hanno inciso notevolmente sulla crescita delle nuove generazioni di architetti. Del resto, riconoscere l’apporto degli anti-accademici, significherebbe – per gli accademici- dovere avviare una profonda revisione metodologica dei loro assunti. Utopia.
Il problema dei revisionisti dell’ultima ora è il non avere capito che, a prescindere dalla diversità di pensiero, non vi è alcun anticlassico, con un minimo d’intelligenza, che disconosca l’apporto dato alla cultura architettonica dagli “architetti della solidità” (definizione di M.Lampugnani per identificare Krier, Rossi, Ungers & C.) attraverso le loro opere ed i loro scritti. Che ognuno ne abbia tratto le personali considerazioni è atto lecito e democratico, inattaccabile.
Gli attacchi di Giorgio Grassi alle nuove correnti denota stanchezza e nevrosi : “…oggi domina il cinismo, magari mascherato dall’ironia. C’è un disprezzo per l’architettura come è stata e come dovrebbe essere. E’ molto difficile prendere sul serio le cosiddette nuove correnti, come quelle dei decostruttivisti”.
Solo la nevrosi può essere il motivo di tale dichiarazione, patologia che Grassi non rintraccia nei personali lavori, ma che noi troviamo palese; si veda per tutti Berlin morgen exhibition 1991, autentico esempio di cinismo, camuffato da “architettura ideale”.
La ricerca spaziale di Gehry, e di tutti gli architetti oltre l’accademismo, è confusa da Grassi quale “ironia”.
Le ataviche paure dei razionalisti accademici si evincono dalle parole di Gregotti, che tende a rimarcare la pericolosità del post decostruttivismo – e ti pareva che non venisse fuori un ulteriore post – che potrebbe portare ai trionfi del nulla, ad un’architettura a cui mancherà l’anima del costruire, ogni motivo ideale e ogni filosofia dell’abitare (estratto dall’articolo di Andrea Colombo – Libero 8.marzo.2001).
Magnago Lampugnani, con il suo Dizionario, rivaluta Terragni ? Boh! Iniziò Mario Labò nel 1947 e nel 1953 Zevi intuì che era necessario, nella fase di critica al razionalismo che era in corso, riconsiderare l’eredità di Terragni.
Allo scopo ha contribuito anche Peter Eisenman, proprio uno dei “decostruttivisti” di cui Grassi, Gregotti e Lampugnani hanno decretato la fine.
In tempi più recenti, abbiamo avuto il contributo di Antonino Saggio.
Cari giovani architetti italiani, l’andropausa è proprio una brutta cosa, annebbia le idee (e non solo).
Le nuove spinte propulsive della critica architettonica ne sono il vaccino. La vitalità dei giovani architetti e dei giovani critici è lampante, connotata dalla volontà di non invischiarsi in polemiche sterili su quella che debba essere la giusta – e unica- architettura.
The new italian blood rappresenta solo una parte dei giovani progettisti italiani, ma ne è campione attendibile.
La capacità individuale di fare architettura è ancora in fase embrionale, ma ciò ne dimostra la validità: nessuna certezza, nessuna esclusione a priori di concetti, nessuna ironia.
La ricerca è viva quando non si ferma a fare consuntivi.
Le Corbusier e Wright, quali tessitori del filo conduttore della modernità, furono figure imprescindibili per le generazioni successive, poiché scandagliarono profondamente la tematica che stava alla base della stessa modernità: intuire che l’architettura era intrisa di innumerevoli possibilità di sviluppo oltre la tradizione, rimovendo violentemente il pericolo che si trasformasse in parodia di se stessa.
Ciò sottintendeva, ovviamente, anche degli errori di valutazione e, magari, una sovrastima di se stessi al di fuori del normale, vincolata alla caparbietà di portare avanti con frenesia i propri convincimenti, anche a costo di non valutarne appieno i risultati . Ma la loro genialità va oltre.
Resta tutt’oggi inconcepibile raffrontare le opere dei due architetti, così da metterle in competizione: ciò che é necessario esaminare è esclusivamente il loro valore di propulsori verso innovative metodologie progettuali. E’ indubbio che la loro grandezza vada individuata nell’avere, a loro volta, intuito le possibilità di sviluppo dei pionieri del M.M., al di qua ed al di là dell’Atlantico, generando, per la prima volta in assoluto, la sinergia della ricerca a livello mondiale, anche se quasi tutti i critici hanno ridotto la loro opera nel cercare di capire se potesse avere dei continuatori, partendo però, nel caso di Wright, dalla base che ‘troppo geniale’ fosse il suo pensiero per essere seguito.
Di contro, é stata quasi sempre tralasciata l’ipotesi che essi possano avere creato, oltre che tra di loro, stimoli nei loro contemporanei e nelle generazioni successive. Pochi, ma grandi architetti, capirono che scopiazzarli sarebbe stato assolutamente ridicolo, oltre che infruttifero.
Le Corbusier e Wright non si sono mai fermati a fare consuntivi e la stessa peculiarità è in Gehry ed Eisenman.
Etichettare quali “decostruttivisti” Gehry ed Eisenman è un’opera di riduzione violenta della portata delle loro singole poetiche. Eppure, tale atteggiamento sembra consuetudine, soprattutto da parte di chi, pubblicando dizionari e testi vari, tende a ridurre la portata dell’architettura contemporanea a moda oramai conclusa. Il pericolo lo intuì Zevi già tre anni fa a proposito del Guggenheim di Gehry, in cui una critica statunitense rintracciava: “…La totale scomparsa delle norme restrittive valide dal classicismo a Mies van der Rohe, basate sul controllo e la bellezza e la loro sostituzione con le leggi dell’immaginazione”.*
Tratto dall’ Editoriale de ” L’architettura cronache e storia”, n°510 – maggio 1998
Atteggiamenti che vorrebbero fare intendere che, nell’arco del secolo scorso, l’architettura, al di fuori di determinate poetiche accademiche, non abbia fatto altro che basarsi su leggi dell’immaginazione: Haring immaginava, e con lui Scharoun, Aalto, Saarinen, Michelucci, Mies, Van Doesburg, Terragni, Mendelsohn, Utzon, hanno tutti immaginato, basando la loro architettura su fantasticherie da sogno. La continuità con il Movimento Moderno che le opere di Eisenman e Gehry indubbiamente contengono non viene considerata al meglio. Continuità che non è sinonimo di riproposizione, ma di ricerca.
Esaminando le finalità delle ricerche dei due architetti, e tenendo ovviamente presente la diversità tematica dei linguaggi, si può affermare che Gehry ed Eisenman non abbiano rinnegato il Movimento Moderno, ma fatto tesoro, così come delle revisioni anni ’50 e ’60.
Come si può accettare l’ipotesi di Giorgio Grassi che identifica la professione odierna quale quella di un decoratore, perdendo per strada “la capacità artistica e la spinta ideale del fare architettura” ?
Farlo significherebbe rendere pretestuoso ed inutile tutto il lavoro dei giovani di New italian blood, che si basa sulla ricerca di architetti quali Gehry, Eisenman, Koolhaas, Libeskind, Tschumi, Hadid.
Farlo significherebbe togliere legittimità alla ricerca italiana che, fortunatamente, sta rimovendo le acque stagnanti, oramai putride. Ricerca architettonica dei giovani che è ampiamente coadiuvata dalla critica giovane, libera da velleità finalizzate a pretendere la verifica e la rifondazione dell’architettura.
Velleità che, come ci dice Zevi, è propria dei revisionisti accademici: ” la neoaccademia è infatti sfiatata, fa un po’ di rumore perché non possiede idee chiare […] E’ certo che in Italia, qualunque movimento architettonico d’avanguardia viene corrotto dall’immediata cupidigia di storicizzarlo o ambientarlo, insomma classicizzarlo o provincializzarlo”.
La giovane critica ed i giovani architetti sono di tutt’altra pasta. Questo pericolo non lo corriamo più e, grazie a loro, molto presto succederà che, al momento di parlare delle ricerche contemporanee -anche dentro le facoltà di architettura- torneremo a parlare in italiano e non più in straniero.
I fantasmi del passato stanno per essere esorcizzati : “il futuro del passato, ecco cosa ci vuole; non un presente che alluda al passato rinunciando a prospettare un futuro” (B.Zevi)
Con buona pace di chi sa di essere in andropausa.
(Paolo G.L. Ferrara – 10/3/2001)
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