Inevitabile che, da chi ci ha abituato a meravigliarci, ci si aspetti sempre di più. Inevitabile che si possano avere delle delusioni allorché qualcosa non ci soddisfa in rapporto all’attesa.
Massimiliano Fuksas individua la mancanza della “sorpresa” – peculiare in Gehry- nell’ultima opera realizzata dall’architetto canadese.
La costruzione del Der Neue Zollhof a Dusseldorf (D), denota – secondo Fuksas- “una stanca ripetizione della scrittura di Gehry, un po’ manierista e mancante della sorpresa alla quale l’architetto…ci aveva abituato”.
La critica di Fuksas non mi soddisfa, forse per la brevità del testo pubblicato su “L’Espresso” dell’8.02.2001.
Il progetto per Dusseldorf è datato 1994, concepito nello stesso arco temporale in cui si costruivano il Guggenheim ed il Nazionale-Nederlande di Praga. Due progetti senza compromessi di sorta, in cui Gehry esprime la capacità enorme di non essere vincolato a “schemi di scrittura” prestabiliti, mostrando – a dirla con A.Saggio- “la duttilità del suo progettare”.
Gli anni ’90 sono stati quelli in cui Gehry ha dato vita alla massima espressione della nuova strada progettuale battuta a partire da Santa Monica, pur sottolineando che Santa Monica è altro rispetto la Walt Disney Concert Hall, l’American Center, il Guggenheim, il Museo Weisman.
Nei tre edifici di Dusseldorf, rispetto a quelli sopra citati, si hanno peculiarità assolutamente diverse, ma che tendono comunque a sovvertire gli schemi e l’ovvietà.
Siamo in un sito in cui predomina l’orizzontalità degli edifici esistenti, per lo più vecchi magazzini di supporto alle funzioni portuali. Primo passo, eliminare il concetto di “vuoto urbano”, scartando a priori l’idea di occupare l’area in senso classico o, all’opposto, con una massa contorta -tipicamente gehryana- che avrebbe incentrato su di sé l’attenzione plastica di tutto il sito.
Gehry “frigge i dogmi” dello sky line esistente e di quello che si sarebbe realizzato se il fronte dal mare verso il porto, fosse stato considerato l’unico punto di vista possibile, con il risultato di dare vita ad edifici di “facciata”, prospicienti il mare.
Abituati alle “collisioni” tipiche delle opere più alte di Gehry, a prima vista, sembra che qui ci sia un semplice assemblaggio di volumi che cercano di spingersi l’uno contro l’altro, ma in direzione del centro del sistema edificato, ove spiccano i volumi più alti, che fungono da blocco – quasi da perno- dell’insieme.
Le masse in movimento -tipiche di Gehry- trovano qui espressione solo nei volumi dimensionalmente minori rispetto a quelli centrali, questi ultimi caratterizzati dalla loro prevalente verticalità.
Scorrendo alcune opere di Gehry in cui lo sviluppo in verticale è la matrice progettuale, si nota quanta difficoltà ci possa essere nel “sorprendere” quando si decide di avere a che fare con il preciso vincolo che lo sviluppo in altezza comporta.
Dal concorso per il Madison Square Garden (1987), a quello per la sede del los Angeles Rapid Transit – Gateway Center- (1991), e passando per il progetto St.James a Boston (1990), non scaturiscono sorprese che tali possano dirsi, lasciando che la sovrapposizione dei piani resti evidente, soprattutto nel ritmo delle finestre e negli angoli a 90°, questi ultimi in veste di linee verticali che scandiscono il netto passaggio da una facciata all’altra. A poco serve il lavoro plastico che tende a rompere gli schemi, appunto, della sovrapposizione.
Anche in Gehry, l’angolo è fondamentale, imponendo la sua presenza ed i suoi vincoli; lavorarlo significa intraprendere e completare la strada della “plasticità della collisione”. L’American Center ne è la dimostrazione e le parole di Antonino Saggio sono chiarificatrici << la componente che prevale è la collisione fra i volumi. Sull’angolo verso la città l’architetto ha qualche problema nel risolvere plasticamente le grandi quantità richieste dal programma, ma sull’angolo dell’isolato tagliato diagonalmente verso il parco si è di fronte a una delle sue più incandescenti creazioni>>.
Nel Guggenheim l’angolo è parte integrante della “fusione”; non vi è sosta nello sguardo se non proprio negli angoli che marcano i singoli volumi: angoli di linea netta, ove solo la tessitura continua del rivestimento ci indirizza a captarne la continuità.
Torniamo a Dusseldorf ed esaminiamo la sovrapposizione dei piani abitativi; indubbiamente, ogni singolo blocco trova nella sovrapposizione l’elemento comune con gli altri. In teoria, tutti e tre gli edifici avrebbero potuto avere lo stesso tipo di finitura materica, o lo stesso colore. Perché differenziarli?
La risposta è insita nella volontà -a cui si accennava precedentemente- di fare saltare gli schemi classici dello sky line e della progettazione in verticale, da sempre connotata dalla ripetizione del piano tipo.
L’edificio intonacato risulta essere quello più sinuoso, grazie alla continuità angolare, anche in quelli non a sezione circolare – rintracciabili soprattutto nei due corpi più alti- Continuità angolare che non necessita di essere marcata da alcun rivestimento, dunque uniformità dell’intonaco.
Si contorce quello centrale e l’acciaio torna ad essere il materiale migliore per dare vita ai piegamenti; l’angolo è scatto energico, fuori piombo e fuori asse. E’ come se l’angolo non ci fosse più, e trascinasse con se anche l’uniformità della sovrapposizione dei piani, marcata dal ritmo delle finestre, quasi annullandola.
L’angolo quale elemento centrale anche nell’edificio in mattoni: qui l’angolo è la verticale del sezionamento effettuato sui diversi blocchi. E’ una verticale non a piombo, quasi che fosse la risultante di una lavorazione a mano per sottrazione di materia, a cui, solo successivamente, sono stati applicati i serramenti delle finestre.
Succede anche a Praga: i serramenti non sono ricavati dallo spessore murario, ma vi s’incastrano quali oggetti geometrici che, nonostante il cambio di dimensione che subiscono per richiamare la partitura tipica dei palazzi storici di Praga – ma anche qui c’è il sovvertimento dell’ovvio, in quanto le finestre non sono in linea, evitando di marcare orizzontalmente la sovrapposizione dei piani- mantengono la loro peculiarità funzionale.
Perché tre diverse soluzioni che, per il solo uso delle finestrature sovrapposte e ritmate, sembrano essere un po’, così come le definisce Fuksas, “manieriste” ? forse per la mancanza di qualcosa di travolgente, che niente avesse a che fare con elementi che potessero richiamare definite tipologie?
Personalmente, credo che quest’opera abbia sicuramente anche delle note positive, individuabili nella scelta di sorprendere “capovolgendo l’ovvio”.
Dicevamo all’inizio che tale progetto è stato concepito in contemporanea con il Guggenheim e l’ edificio di Praga, ma non sembra assomigliare a nessuno dei due: meno male. Sarebbe, come dice Fuksas, “stanca ripetizione della scrittura (di Gehry)”. Probabilmente le torri di Dusseldorf non hanno la stessa forza dirompente e, sicuramente, non saranno ricordate quali ” manifesto” dell’ architettura di Gehry.
Il problema è se Gehry voglia avere un manifesto della propria architettura. Credo di no, dunque, aspettiamoci di tutto.
Concludendo, credo possa essere appropriato citare il pensiero di Antonino Saggio -espresso nel suo libro su Gehry “Architetture residuali”- Testo & Immagine- che, dopo averci illustrato i cambiamenti di percorso effettuati dall’architetto canadese – sino alla casa Lewis- conclude: << Questa architettura segnerà una nuova fase o è solo un esperimento? (…) Gehry si avvia forse a quella liquefazione della materia che ha contraddistinto l’ultima fase dei grandi vecchi Michelangelo, Renoir, Cezanne, Monet, in un analogo sciogliersi della forma? (…) Quante frontiere ci riserva la sperimentazione di Gehry? Osserviamo con interesse e con distacco: il suo lavoro ci ha già dato moltissimo, ma ora è questo tavolo che aspetta. L’unico futuro che c’interessa costruire è il nostro: con Gehry, liquidandolo>>.
Ci ha già dato moltissimo, anche negli esempi meno riusciti se visti nella loro veste di sperimentazione : sta a noi non aspettarci che sia sempre stupefacente, ed a noi spetta -per chi lo voglia- esserne contemporanei, non eredi. “Liquidarlo” significa questo.
(Paolo G.L. Ferrara – 12/2/2001)
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