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Controrivista

A ciascuno il suo

Tempo addietro, leggendo l’editoriale della rivista “Il Progetto” -n°2-, avevo sottolineato, a mia memoria, la frase “…L’informatica capovolge l’imperativo della conservazione, delle resistenze e dell’egoismo. Implica l’apertura, lo spendersi di strutture sensibili in grado di captare e trasmettere i messaggi dell’ambiente”.
Arrivando alla conclusione della lettura ho voluto evidenziare, sempre a mia memoria, quello che può essere definito il succo dello scritto: “L’architettura moderna della nostra epoca è già iniziata”.
Mi ha particolarmente colpito perché ne ho captato la decisa incisività.
Finalmente qualcuno che non usava l’aggettivo “moderno” esclusivamente affibbiandogli il sostantivo “crisi”.
Relazionandola al contenuto dell’editoriale – cui fanno da premessa le parole di Toyo Ito-, l’affermazione assume la connotazione di un preciso obiettivo, quello di dare linfa vitale all’architettura per mezzo delle relazioni e interazioni che essa può avere con le nuove tecnologie, soprattutto quelle identificate da Toyo Ito con il flusso degli elettroni.
Dunque, se “moderno” significa “iniziato da poco; tipico dell’era attuale”- con tutto ciò che tale definizione presuppone – , parlare di “architettura moderna della nostra epoca” è atto assolutamente significativo.
La modernità in architettura è sempre stata momento polemico, ribelle verso uno status consolidato, come avvenne, ad esempio, nel ‘600 con la decisiva reazione del Barocco alla sterilità manierista.
Dichiarare che “l’architettura moderna della nostra epoca è già iniziata” è un atteggiamento che nasce dalla consapevolezza del fatto che “la crisi è un valore”, da cui se ne possono generare ulteriori, soprattutto se si considera che qualsiasi nuovo atteggiamento potrà essere portato avanti solo comprendendo le crisi a cui esso stesso potrà essere soggetto.
Le nuove tecnologie s’inseriscono irresistibilmente nell’ambito architettonico. Non possono non farne parte.
E lo mettono in crisi, dunque ne sono spinta propulsiva per avviare nuove ricerche.
Fin qui, quanto letto su “Il Progetto”.
Il tema delle nuove tecnologie assimilate all’architettura, e la messa in discussione dei significati spaziali della stessa, è ripreso dal primo numero di “Cross-ing”, rivista diretta da François Burkhardt.
Il media building è l’oggetto del dibattito a distanza tra Paul Virilio e Hans Hollein.
Virilio afferma che l’immagine – intesa quale mezzo di comunicazione dell’informazione- ha assunto in architettura il ruolo di “materia costruttiva” : ” L’immagine non è semplicemente un materiale concettuale che viene riprodotto attraverso il disegno, il modello, l’assonometria e la prospettiva, ma anche un materiale costruttivo”.
Virilio sonda il terreno dal suo punto di vista privilegiato, quello dell’urbanista e ciò rende scorrevole e sensato il ragionamento.
Quel che non convince è la riduzione dell’architettura esclusivamente al ruolo di “facciata”, riferendosi principalmente a quella rivolta verso un luogo – piazza, via principale- ben definito in qualità di agorà contemporanea.
Il concetto di Virilio è chiaro: ” L’architettura sta diventando infatti un supporto dell’informazione, per non dire un supporto pubblicitario in senso lato, un supporto mediatico”.
Letta nel senso di “architettura ridotta a supporto” l’affermazione di Virilio potrebbe essere – come detto- coerente con i significati della sua teoria sulla nuova architettura urbana, ma se interpretata dal punto di vista dell’architettura/spazialità sarebbe, francamente, inaccettabile.
Lo spazio/architettura è centrale. Lo spazio è l’elemento base dell’architettura.
L’architettura è – e resterà sempre- spazio pensato, cioè “…l’unica espressione tangibile dello spazio di cui la mente umana sia capace. Afferra lo spazio, inviluppa lo spazio, diviene spazio[…]La vitalità architettonica comporta un richiamo al senso tattile e a quello visivo: nel peso delle masse vincolate a terra, nel loro incorporeo librarsi nella luce…” . Questo il pensiero di Erich Mendelsohn: architettura come richiamo al senso tattile e visivo, grazie al suo essere spazio tangibile.
Senso tattile, senso visivo: Mendelsohn; società visiva, società tattile: Marshall McLuhan, Toyo Ito.
La società tattile, così come intesa da T.Ito, influenza nel modo più radicale possibile l’architettura; in merito a ciò, in This is Tomorrow, di Luigi Prestinenza Puglisi, si legge: ” La differenza tra le due società- la visiva e la tattile- è abissale. La prima, infatti, gestisce quantità, forze, pesi, mentre la seconda lavora con flussi, interrelazioni, valori immateriali” e si evidenzia il fatto che gli accorgimenti elettronici diventano indispensabili affinchè l’uomo possa essere in contatto con il mondo circostante, inteso quale circuito in cui interagire. Veniamo all’architettura, su cui Virilio si sbilancia così: “Ma la stessa esigenza di fare parte e di interagire con il contesto si registra anche per gli edifici e le città”.
Molto interessante quanto affermato da Virilio, ma con insiti dei pericoli che potrebbero trasformare l’architettura a quinta scenica degli spazi urbani, quasi quanto successo con le impostazioni rinascimentali e le divagazioni neoclassiche: edificio architettonico quale quinta scenica di un contesto urbano.
A scanso di equivoci, eliminiamo a priori il problema sclerotico della contrapposizione conservazione imperitura vs precarietà contemporanea; nessun tipo di spirito contemplativo pervade i sentimenti di chi scrive, tutt’altro.
La questione architettonica del media building deve necessariamente essere riportata all’interno di quella spaziale in quanto, se è vero che la società tattile non ha più niente a che fare con quella visiva, altrettanto vero è che l’architettura, che ne rispecchia i valori, sarà sempre e comunque “questione spaziale”, con tutti i suoi significati.
Precisa Virilio: “Lo spazio sarà sempre presente, ma viene dequalificato dal tempo della velocità della luce, della connettività, dell’interconnessione, dell’interattività, degli scambi […]Dunque d’ora in poi l’architettura urbana dovrà essere un’architettura del tempo e del feedback, e non solo un’architettura dello spazio e delle facciate”. Ciò che sembra chiaro è che Virilio intenda lo spazio esclusivamente in termini di interconnessioni temporali, tralasciando quasi del tutto i rapporti urbani che i singoli edifici instaurano spazialmente tra di essi e che questi siano il mezzo per fare interagire esterno ed interno, città e architettura. La società tattile ha scardinato i fondamenti della società visiva? Non del tutto, piuttosto ne ha cambiato i presupposti. La società visiva non può essere ascritta esclusivamente al periodo rinascimentale e della prospettiva e, approssimativamente, a quello dell’industria e della macchina. La preponderanza che Virilio dà all’importanza del tempo reale sullo spazio reale è argomento improprio. L’architettura non può correre il rischio di riproporsi in una nuova scissione tra ciò che guarda all’ambiente esterno (facciata) e ciò che si trova all’interno (spazio adibito alla funzione per cui l’edificio è stato costruito).
Sgomberiamo il campo: ciò non significa che si debba ripristinare l’assunto “la forma segue la funzione”. Tutt’altro.
Prestinenza Puglisi, citando Eisenman, Tschumi, Hadid, Koolhaas, ci parla di una “…rottura esplicita e senza precedenti nei confronti della tradizione disciplinare dell’architettura, anche la più recente, per capirci quella del Movimento Moderno, dell’organicismo, dell’espressionismo, del Post modern[…] al mito secondo cui la forma segue la funzione o comunque è interrelata a essa (form and function are one, diceva Wright), si sostituisce il presupposto che entrambe possono essere fra di loro indipendenti o interdipendenti secondo modalità diverse da quelle tradizionali. Al principio secondo cui lo spazio interno deve trovare espressione all’esterno e viceversa, si preferisce quello della loro possibile indifferenza o complementarità”.
Il concetto è chiaro, così come chiaro è il messaggio: l’indipendenza forma/funzione non significa però il dovere scindere architettura e spazio in entità diverse e contrapposte.
Eisenman ignora sicuramente il form and function are one di Wright – e tutta la scuola organica- ma il suo riferimento è stato il Razionalismo europeo nella sua consapevolezza di essere foriero di crisi, non di certezze.
Siamo anni luce lontani dall’ International Style, a cui crisi e dubbi non appartenevano; Eisenman s’inoltra nelle “crisi” di Le Corbusier e Terragni, in una parola, nella vera essenza della loro ricerca e di quella di Mies, Gropius e dei Costruttivisti.
Dall’influenza di queste crisi=ricerca del razionalismo europeo, non ne è esente lo stesso Koolhaas, con modalità diverse, che coinvolgono anche Tschumi.
Gli assunti “la forma segue la funzione” e ” la forma e la funzione sono una sola cosa” sono sempre stati interpretati quali certezze di chi li propugnava, ma sappiamo che i loro stessi avvenimenti progettuali hanno dimostrato che le cose non stavano così.
Il media building incarna il continuo rispecchiarsi della società nell’architettura, e l’architettura continua ad essere specchio dei tempi. Coerentemente alla consapevolezza del valore della crisi razionalista, gli architetti citati da Prestinenza Puglisi hanno intrapreso la giusta via, eliminando a priori- perché senza valori- il semplice percorso di “cosmesi del M.M.”, interpretando -magari inconsapevolmente- il monito di Bruno Zevi “…l’architettura deve trovare i propri incentivi fuori di sé, nella vita e nelle cose, non meditando solipsisticamente sulle forme consumate del suo passato. Questo è l’impegno se vogliamo evitare che il superamento della composizione razionalista sbocchi in rigurgiti accademici”.
Ma l’impegno deve essere anche finalizzato a non ridurre l’architettura esclusivamente a “supporto mediatico”; se, leggendo Prestinenza Puglisi, consideriamo che Koolhaas dematerializza la scatola nei suoi ambiti perimetrali “lavorando su filtri,diaframmi,trasparenze”, dobbiamo altresì tenere presente che lo spazio architettonico (ovvero, l’interno) è altrettanto importante ed è soggetto al processo progettuale tanto quanto la scatola esterna dematerializzata, a mezzo della fluidità che “…si ottiene rompendo la scatola, trasformando gli ambienti in percorsi, innescando circuiti aperti. Nella biblioteca Jessieu i piani si susseguono senza interruzioni[…]il progetto per la Biblioteca di Francia(1989) è organizzato su percorsi e spazi continui scavati come buchi di una groviera all’interno della massa dei libri”.
No all’architettura ridotta a supporto, si all’architettura che possa valorizzare se stessa anche per mezzo degli stimoli della società tattile.
Se, come afferma Francois Burkhardt, la residenza unifamiliare di Herzog & de Meuron ( presentata sul n° 1 della rivista Cross-ing, ed attualmente in costruzione a San Francisco) incarna la “… volontà di associare il “paesaggio naturale” a quello “artificiale” dell’architettura, perseguendo la ricerca di un “paesaggio virtuale” offerto all’arte, che fa di questa architettura un’opera organica”, potremmo dire che l’integrazione dell’architettura quale spazio con la potenzialità dei media, ed il loro dialogo con il paesaggio naturale, è operazione riuscita. Dunque, la “storia”, come giusto che sia, va avanti ed è, sempre secondo Burkhardt, “…un processo che non si ferma e non si può far tornare indietro”.
Inconfutabile, ma ciò implica che qualsiasi paragone sia inutile quanto anacronistico; affermare che “…la casa Kramlich può essere considerata organica nel senso che “non ferisce” il paesaggio” evitando di “…diventare un segno nel paesaggio. L’edificio non vuole infatti prevalere sul contesto, come accade in certe case di Wright (penso ad esempio alla Casa sulla Cascata vista dal basso)”, significa confrontare forzatamente due architetture lontane tra loro nel tempo e cercare di evidenziarne la presunta diversa “organicità” :
” La visione di Herzog & de Meuron si presenta dunque organica in modo del tutto diverso dal senso che Wright attribuiva a questo termine”.
Letto il pensiero di Burkhardt, mi chiedo che senso abbia parlare di diversa accezione dell’organicità e, dunque, vado a rileggere Wright : “Architettura organica vuol dire, né più né meno, società organica. Gli ideali organici rifiutano le regole imposte dall’estetismo epidermico o dal mero buon gusto[…] nell’era moderna l’arte, la scienza e la religione s’incontreranno, sino ad identificarsi: tale unità sarà conseguita mediante un processo in cui l’architettura organica eserciterà un ruolo centrale”. Non mi basta e cerco chiarificazioni da Bruno Zevi:”…il dinamismo organico rispecchia e promuove i reali comportamenti dell’uomo, punta sui contenuti e sulle funzioni”, dunque,il compito dell’architettura organica “..è di fare discendere la configurazione dell’edificio dall’insieme delle attività che vi si svologono, ricercando negli spazi vissuti la felicità materiale, spirituale e psicologica degli utenti, estendendo tale esigenza dal campo privato a quello pubblico, dalla casa alla città, al territorio. Organico è un attributo che si fonda su un’idea sociale, non su di una intenzionalità figurativa”.
Siamo inquieti: e se la dirompenza dell’architettura organica – oltre qualsiasi problema di forma- stesse proprio nella capacità di assorbire e interagire con le innovazioni di un qualsiasi tempo ad essa contemporaneo?
Inquietudine che ci riporta al tempo presente: il media building è e resta realtà, ma non se ne faccia ulteriore pretesto per ridurre l’architettura a fatto urbanistico, perché – prendendo a prestito Zevi- se è vero che
“… sapere leggere una città, sia pure un episodio urbano, è più difficile che saper leggere un edificio, poiché, se gli strumenti di indagine riguardano sempre spazi, volumi, percorsi, gli intrecci sono più complessi” , resta fondamentale il sapere leggere un edificio, inteso quale spazio architettonico, e non in veste di supporto mediatico.

(Paolo G.L. Ferrara – 25/1/2001)

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